lunedì 2 ottobre 2017

Da santi a dèi: ripaganizzare il cristianesimo



La Madonna e i santi della Cascina Soccorso di Uboldo, tutti estremamente "paganizzabili".

“Il dio vide che il santo era buono per lui, e si alleò col santo;
è difficile da capire: il dio si è fuso col santo,
ma allo stesso tempo rimangono due figure distinte.” 
(la bruja Marisa, ne Il voodoo dominicano)


Mi è capitato più volte in passato di venire tacciato come “finto pagano” perché, a differenza di tanti altri, mi piace sempre molto andare in chiesa.
Chiariamoci: andare in chiesa non significa andarci durante la messa o il rosario, anzi, quella è una cosa che in genere evito. Intendo entrare in una chiesa per visitarla, guardare le opere d’arte, ma anche e soprattutto per fare gesti di devozione se qualche altare mi colpisce particolarmente.
Questo significa essere cristiano? Probabilmente, a un occhio estraneo (e per molti neopagani), sì.
La presa di posizione dei miei correligionari (o almeno della stragrande maggioranza di essi) è quella di evitare ogni contatto col cristianesimo, se non essergli apertamente ostile. Spesso dietro a simili atteggiamenti ci sono delle specifiche motivazioni ideologiche o personali, che sono sempre più o meno le stesse: il prete del paese dove sono cresciuto era uno stronzo, la morale cristiana mi impedisce di essere libero, i Cristiani hanno sterminato i Pagani senza pietà nei secoli passati, e così via.
È logico che condivido tutte queste motivazioni, persino la prima, sulla fiducia. Ma ciò non inficia in alcun modo il valore di ciò che il cristianesimo ha prodotto e che il paganesimo può fare suo… O forse che il paganesimo ha prodotto e il cristianesimo non si è accorto di aver assorbito.
Mi riferisco, credo sia chiaro, al culto dei santi.

La fine dei culti tradizionali: davvero?
È pensiero comune che nell’Impero Romano la maggioranza del paganesimo si sia estinto tra il IV e il V secolo, con strascichi anche nei periodi successivi: le storie di Giuliano e di Ipazia sono, credo, sulla bocca di tutti i Neopagani con un minimo di cultura. Ovviamente la faccenda è più complessa, e in un vecchio articolo che trovate QUI avevo anche fatto notare come questa religione (o per meglio dire insieme di religioni) si fosse protratta senza problemi fino al pieno Medioevo e, in ambito colto, al Rinascimento.
Il punto però è che tutto questo è vero solo in parte: un conto è parlare di “culto pagano”, un altro è parlare di “pensiero pagano”, ovverosia dell’interpretare la realtà attraverso idee e metodi propri del paganesimo. E non mi riferisco qui alle solite tiritere sulla persistenza degli Olimpici nelle opere artistiche e letterarie medievali, ma a qualcosa di più sottile e al contempo più semplice, se vogliamo involontario e ingenuo.
Si è detto spesso che gli dèi, sconfitti dalla nuova religione, hanno avuto solo due destini: essere trasformati in santi o in demoni, ma ciò non è vero, o meglio, è vero solo in determinati casi (come la solita santa Brigida e il solito Pan). In realtà, molto più spesso, il dio veniva concettualmente sostituito dal santo, ma in una maniera che non era minimamente controllabile dalla Chiesa di Roma. Per assurdo, quando in Salento si facevano le processioni per far piovere, i Romani la facevano a Giove, poi i Cristiani a san Pietro: ma san Pietro non è identificabile con Giove, né mai un qualche vescovo ha attuato il progetto di sostituire il santo al dio. Ciò si deve esclusivamente alla devozione, all’immaginazione e alla logica del popolo.
Faccio qualche esempio chiarificatore. Nel Milanese, san Sebastiano era, almeno fino al Cinquecento, colui che proteggeva gli animali dalle malattie; va da sé che, per la Chiesa ufficiale dell’epoca, egli non aveva nessuna potestà del genere, dunque da dove arrivava l’attribuzione? Molto semplicemente dall’iconografia e dalla lingua: le ferite delle frecce ricordavano alla gente le piaghe delle malattie, e il suo nome in dialetto, Bastiàn, ricorda appunto le bestie: da qui il santo protettore degli animali invocato contro le epidemie. E un caso analogo lo abbiamo con santa Cristina in Romagna, che diventa la protettrice del pollame (la “cresta”), con sant’Antonio che diventa protettore degli animali perché ha un maiale (in realtà, da agiografia, rappresentazione del Diavolo), o con san Paolo nel già citato Salento, che difende dagli animali velenosi (forse per l’episodio in cui sbarcò a Malta e distrusse i serpenti che la infestavano).
Questo è un modo di pensare non cristiano, ma assolutamente pagano, l’interpretare la potestà di un’entità spirituale non in base a ciò che dice la dottrina ufficiale, ma attraverso il valore del nome e del simbolo. Del resto la maggior parte degli dèi romani avevano “nomi parlanti”: basti pensare a Furina, la dea dei ladri (fures), a Robigo, il dio della ruggine (robigus), a Giano, il dio dei passaggi (ianua, porta), e così via. Cambiavano le divinità, ma non il modo di pensare e di fare degli uomini.
Dunque quando si è realmente estinto il paganesimo?
La risposta corretta a questo punto dovrebbe essere “più o meno tra XVI e XVII secolo”, l’epoca della Controriforma, quando la Chiesa ha ripreso le redini di tutta la faccenda, con un ampio processo di evangelizzazione delle sue stesse diocesi e di estirpazione delle superstizioni. E va da sé che con questo termine si intendevano tutte quelle pratiche che non rientravano nel canone cattolico, ma che appartenevano al popolo laico (nobili, borghesi e contadini indifferentemente, molto spesso anche al basso clero): esse erano di fatto la vera religiosità dell’epoca, o delle epoche passate, e che ben poco aveva a che spartire col cristianesimo dei libri, oggi come allora.
Carlo Borromeo, poco prima del 1579, fece indagare tutti i suoi vicari foranei affinché gli riportassero le varie pratiche popolari della loro pieve, di modo da poterle raccogliere, catalogare e si potesse infine decidere come estirparle: ne è nato un breve elenco di pratiche della diocesi milanese che è piuttosto impressionante. Per fare alcuni esempi, al di là dei normali casi di segnatura, a Gorgonzola per curare i malanni ci si bagnava nell’acqua corrente recitando alcuni Pater Noster e Ave Maria; a Settala non si mangiavano determinati alimenti nei giorni di san Biagio (per proteggere la gola), di santa Agata (per il seno) e di santa Apollonia (per i denti); a Trenno le ostetriche erano solite dire parole magiche nelle quali si nominava il latte della Madonna prima di compiere il loro lavoro; a Darfo si diceva un’orazione a san Giobbe contro i vermi; a Monza si recitavano cento Pater Noster su alcune pietre usate poi per curare i mali, in relazione alla storia di santo Stefano; la stessa pianta di sambuco, usata per svariate operazioni magiche, veniva definita come “pianta di san Bucco”, un santo in realtà inesistente nel canone cattolico. E si potrebbe continuare.
Accanto a queste pratiche ne esistevano un’infinità di matrice visibilmente più pagana: accendere un falò e farci urinare sopra una donna per far piovere, incidere segni su un anello per far innamorare, raccogliere erbe per ottenere determinati effetti, e così via. Il tutto era però spesso accompagnato da preghiere della liturgia cristiana, in genere il Pater Noster e l’Ave Maria, e a volte anche (paradossalmente) il Credo; gli stessi oggetti della chiesa o le bolle dei frati diventavano strumenti utilizzabili: queste ultime venivano portate al collo contro il mal di testa (a Barlassina), l’ostensorio veniva portato sul campanile per scongiurare le tempeste imminenti (ad Appiano Gentile), e in generale affilare gli strumenti da lavoro sulle colonne o far asciugare il grano sul pavimento della chiesa era una pratica comune, che in qualche modo “consacrava” gli oggetti e i cibi. Di nuovo, nulla a che fare col cristianesimo come lo intendiamo noi.
A questo punto pare scontato, almeno a me, parlare della relazione tra il culto dei santi e quello delle divinità afroamericane, i loa e gli orisha: in quel contesto essi sono nati proprio in relazione al cattolicesimo, molto spesso per pura iconografia che gli schiavi potevano vedere nelle chiese o, più spesso, sulle immaginette. Per questo sant’Ulrico, rappresentato col pesce, diventa il dio del mare Agwé, o san Sebastiano legato all’albero il dio della foresta e dell’erboristeria Gran Bois; san Gerardo Maiella è rappresentato con un teschio, e tanto basta perché diventi un aspetto di Baron Samedi, il signore della morte. Ma, come mi è stato fatto notare di recente, la maggioranza dei Neopagani non conosce i sincretismi in questione, che restano di nicchia o relegati al loro valore magico, senza una reale comprensione del pensiero che c’è dietro.
In effetti, i Neopagani preferiscono divinità del mondo antico, e anche giustamente: si votano a Odino, Atena, Bastet o Mitra, in vista di loro presunte origini, della semplice preferenza intellettuale o perché si sentono spiritualmente affini. Ed è sempre nel “mondo antico”, per così dire, che il loro pensiero resta relegato, dove Odino può essere Mercurio o Ermes o Thoth, e la cosa finisce lì. Credo che la maggior parte di loro non penserebbe mai e poi mai di poter entrare in una chiesa e accendere un cero davanti all’immagine di san Nicola o san Michele, rivolgendo però una silenziosa preghiera al padre degli dèi norreni. È questo è, dal mio punto di vista, una grande limitazione.
È una limitazione perché implica fare in modo che il pensiero pagano, quello religiosamente più aperto e accogliente, escluda da sé un’altra rappresentazione del Divino che, come abbiamo visto, non è realmente nata né si è sviluppata per volere della Chiesa burocratica, statalista e catechetica: le cappelle ai lati delle strade non sono state costruite dai cardinali o dai teologi vaticani e, come visto prima, nemmeno da gente che intendeva i santi allo stesso modo in cui li intendevano (e li intendono) loro. Eppure il moderno paganesimo non ha alcuna confidenza col loro culto, anzi, vi è spesso un’aperta ostilità, che posso capire nel caso delle devozioni contemporanee palesemente massmediatiche e truffaldine, ma non certo per quelle antiche.

Da dio a santo e poi di nuovo a dio.
Vorrei a questo punto teorizzare l’usufrutto del culto dei santi all’interno del neopaganesimo.
Occorre anzitutto dire che, per noi Italiani, questa cosa è fattibile soprattutto in vista del cattolicesimo imperante il quale, almeno per una volta, gioca a nostro favore: in generale, sarebbe più difficile fare una cosa del genere (anzi, impossibile) nei Paesi a maggioranza protestante, dove simili manifestazioni di spiritualità sono state abolite sin dal tempo di Lutero e Calvino, in quanto ritenute (giustamente, diremmo noi oggi) una “paganizzazione” del cristianesimo. Ma noi in Italia, come anche in Francia, Spagna, Irlanda, Grecia, Russia e via dicendo, abbiamo una moltitudine di santi con un’ancor più vasta moltitudine di immagini. E ovviamete, come detto prima, non parlo della Madonna di Fatima o di Padre Pio.
Mi è capitato più volte di pensare che esistono fondamentalmente due tipologie di neopagani: gli uomini-bosco e gli uomini-caverna. I primi sono quelli che trovano la piena realizzazione della loro spiritualità immersi nella natura, dove possono parlare con gli alberi, sentire il canto degli uccelli, accarezzare le acque di un ruscello e così via, sentendosi invece oppressi nel chiuso di un edificio; viceversa, i secondi sono quelli che si realizzano nel raccoglimento del silenzio e dell’incenso, davanti a immagini fatte dall’uomo che parlano allo spirito con la loro simbologia e la loro storia, trovando invece distraente il profluvio di rumori della natura incontaminata. Certo, non esistono uomini-bosco e uomini-caverna che siano così al 100%, ma com’è logico qui stiamo parlando di tendenze più o meno accentuate, in base anche alle occasioni. La riscoperta del culto dei santi è per i neopagani che sono tendenzialmente uomini-caverna, va da sé.
Quindi, se non preferite il bosco e l’altarino domestico è a volte insufficiente, la chiesa è a mio avviso la scelta più indicata: del resto, essa è piena di immagini pronte a essere interpretate, l’atmosfera è la stessa di un tempio (o meglio, è uno dei pochi edifici del mondo di oggi in cui si può respirare, in genere, un’aria sacrale), e si può camminare sullo stesso suolo dove migliaia di uomini hanno camminato prima di noi. Uomini, come detto, che andando a ritroso nel tempo non intendevano i santi come i loro correligionari attuali; se poi avete la fortuna di potervi recare in una chiesa notoriamente costruita sopra un tempio pagano, il senso di sacro sarà ancora più forte, andando indietro di duemila anni almeno. Poi è ovvio, ci vuole una certa intimità con uno specifico santo o con una specifica chiesa per “sentire” qualcosa: ma è normale, funzionerebbe così anche con un dio o un tempio pagano vero e proprio.
Mi rendo poi conto che nell’Italia Settentrionale è piuttosto facile praticare il neopaganesimo alla maniera per così dire “tradizionale”, ma altrove so non esserlo: ricordo che, solo qualche anno fa, Francesco Dimitri scriveva in un suo articolo che nella sua città d’origine, in Salento, l’unica religione accettata (nelle scuole come nella cultura in generale) era quella cattolica romana, il che è paradossale considerata l’esistenza in loco del tarantismo. Mancavano, in sostanza, tutte quelle associazioni, quelle fiere e quegli eventi a tema pagano che sono invece sempre più numerosi nell’Italia del nord e del centro. Il praticare in chiesa diventerebbe in questo senso anche un perfetto escamotage per vivere la propria religione senza troppo dare nell’occhio e creare problemi in una società tanto retrograda che, si spera, potrà solo diventare più aperta col passare degli anni e l’estinguersi delle vecchie generazioni reazionarie.
Esiste poi, immagino, una presa di posizione più politica nel non voler usufruire delle chiese come luoghi di culto: accendendo ceri, o facendo offerte in generale, si finanzia un’istituzione che è per antonomasia nemica del paganesimo, vecchio e nuovo indistinatamente. Questo è di base vero, ma occorre fare secondo me un distinguo importante: se non volete “aiutare il Vaticano” con un’offerta per la candela, date una moneta al primo mendicante che trovate, o offrite qualcosa di diverso dal denaro, ha poca importanza. In genere però, almeno per quanto ne so, la maggioranza delle offerte date in una specifica chiesa servono al mantenimento fisico di quella chiesa stessa, dunque del tempio che avete appena visitato. Sono cose come l’8 per mille, i libri di padre Amorth, i bicchieri con la faccia di papa Francesco e i rosari di Padre Pio a dare al Vaticano la stragrande maggioranza dei suoi introiti (per lo meno quelli leciti).
Detto questo, mi sento di fare una precisazione: non sto qui dicendo che occorrerebbe sostituire il proprio culto (molto spesso) domestico con quello per così dire “templare” o “ecclesiastico”. Sto invece dicendo che la pratica in una chiesa può essere un’eventuale integrazione dello stesso, un modo sensato di sfruttare qualcosa che la cultura cristiana ha da offrire, per quanto a sua insaputa. Per fare un esempio, tornando agli orisha di cui sopra, in San Bernardino alle Ossa di Milano, su un altare laterale sono state poste le statuette di due santi, ovvero la Madonna e san Sebastiano, di fattura palesemente latinoamericana; e se è vero che la vicina chiesa di Santo Stefano Maggiore è attualmente della comunità ecuadoregna, sono abbastanza sicuro che quella particolare scelta non sia strettamente correlata alla cosa, o meglio, non nel senso cristiano del termine.
Alla stessa maniera le chiese sono spesso e volentieri, e a opera degli stessi cristiani, ricettacoli di attività che noi definiremmo magica: non è infatti raro, nemmeno al giorno d’oggi, che la gente riempia boccette nelle acquasantiere, porti dell’olio o altri alimenti dal prete perché siano benedetti, si tenga l’ostia in mano dopo averla presa durante l’eucarestia per portarsela a casa, e via dicendo. Non saprei dire se esiste ancora l’abitudine di nascondere oggetti particolari sotto gli altari o in altre parti della chiesa per ottenere qualcosa, ma direi che è presumibile. E ovviamente esistono anche santi che sono considerati veri e propri maghi: nel mondo di lingua spagnola e portoghese è la controversa figura di san Cipriano a detenere questo primato, mentre in Italia egli appare solo in alcune sporadiche occasioni (ad esempio in Sardegna), perché è san Giovanni Battista a essere associato a questo genere di pratiche (basti pensare a tutte le tradizioni della sua notte, il 24 giugno).
Per tirare le somme, sono personalmente convinto che le caratteristiche cultuali del paganesimo siano due: esso inventa sempre cose nuove (in quanto massima espressione di teologia dinamica), ma al tempo stesso usa ciò che c’era prima (in quanto massima espressione di accoglienza intellettuale). Dunque, in questo modo, i santi stessi diventano espressioni alternative delle antiche divinità, anche declinate in maniera più nuova rispetto al passato, più adatte al continuum storico: san Giacomo e la Madonna non sono, in genere, santi legati alla magia, ma se da qualche parte le loro chiese sorgono davanti a un importante crocicchio, essi diventano espressioni di Kalfu ed Ecate, e a quel punto anche questi dèi acquisiscono caratteristiche dei santi in questione, il primo agendo sul benessere dei raccolti, la seconda proteggendo madri e bambini.
Si potrebbe dunque dire che il culto dei santi, nato pagano e diventato cristiano, torna in questo modo a essere nuovamente pagano.

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