lunedì 7 agosto 2017

Lo stregone del Monte Rosso e altre storie






Da sei anni mi capita ormai di passare buona parte del mese di agosto in un paese nei pressi di Varese, Venegono Superiore, quello che a primo acchito potrebbe sembrare l’ennesimo paesino di provincia, senza nulla di interessante. Tuttavia, sia per la suddetta permanenza che per il fatto di averci trascorso buona parte della mia infanzia (è la residenza dei miei nonni materni e dei miei zii e prozii), mi sono ritrovato a osservarlo per tanto tempo, e un posticino nel mio cuore se l’è lecitamente scavato.
Nell’estate 2012, ricordando vagamente che c’erano stati dei processi per stregoneria in zona, avevo creato un personaggio per il gdr Kata Kumbas che era per l’appunto uno stregone, e che veniva dal Monte Rosso, una delle zone di Venegono. È stato da quel momento che, col passare degli anni, mi sono sempre più reso conto di quanto il paesino avesse da offrire a un occhio attento. Ho dunque deciso di mettere per iscritto quanto scoperto, a metà strada fra un saggio e un diario, visto che si tratta per buona parte di miei ricordi degli anni passati.
Seguendo la strada che da Venegono Inferiore porta al suo omonimo Superiore, e passata una suggestiva casa rosa con una piccola torre, si giunge alla piazza con la chiesetta di Santa Caterina; lì accanto, fino a qualche giorno fa c’era una strepitosa trattoria, il Pancia Piena, che faceva fin troppo onore alla sua nomea: ci ho mangiato una sola volta, e credo che la risata isterica che ho fatto quando, ormai sazio, ho visto altri piatti d’antipasto arrivare dalla cucina, possa di per sé dire tutto. Voglio rendere omaggio anche ai gentilissimi proprietari e al calice colmo di Braulio che per loro contava come “digestivo”.

Bei ricordi...
Proseguendo si va verso il centro, dove sorge la parrocchia dedicata a san Giorgio, patrono del paese, il quale, come la maggior parte dei vecchi santi patroni, ormai non conta quasi più nulla nella devozione popolare, schiacciato dai leziosi culti dell’Età Moderna. Ma, detto fra noi, non che sarebbe cambiato qualcosa, perché siamo comunque molto vicini a Milano, e come sempre in queste zone non è il Santo, ma il Drago a farla da padrone.
È quindi un caso che l’attuale sindaco sia un Crespi?...

Il mosaico di san Giorgio e il drago sull'ingresso di un'abitazione venegonese.

Il guaritore in mezzo al bosco.

La fontana del monumento ai caduti, che fa da ingresso al Monte Rosso.

Prima di giungere alla suddetta piazza centrale, ci sono alcune strade sulla sinistra che salgono verso l’alto: una di queste (quella con la fontana) porta al quartiere più esclusivo di Venegono, il cosiddetto Monte Rosso, una zona residenziale composta esclusivamente da ville con ampi giardini boschivi, immerse in un silenzio quasi irreale. Da lì, proseguendo verso est, si estende l’immensa distesa del Pianbosco, un grande polmone verde che separa i comuni del Varesotto da quelli del Comasco, di cui solo alcune zone sono abitate, ville più o meno isolate fra loro immerse in una foresta d’altri tempi.
Proseguendo però verso nord, portandosi sul limitare (o se preferite sulla cima) del Monte Rosso c’è una stradina sterrata che si inoltra per qualche decina di metri nella vegetazione, fino ad arrivare a un cancello, che si apre su una grande distesa d’erba circondata dal fitto del bosco. In teoria si sarebbe già entro il comune di Vedano Olona, il quale però è molto distante, e vi si arriva solo tramite un secondo sentiero spesso battuto dai cercatori di funghi, che passa vicino al vecchio lazzaretto. All’interno di questa grande radura sorgono due edifici: in lontananza, un vecchio cascinale, e a metà strada fra questo e il cancello un edificio più piccolo, rustico e imbiancato, con un posteggio per 4 o 5 auto. Tutta questa proprietà prende il suggestivo nome di Cascina del Trono, e fino a qualche anno fa vi abitava un segnatore, il “Giulio da Venegon” o il “Giulio Medegón”.

Il rustico dove operava il segnatore di Venegono.

I miei nonni lo conoscevano sin da quando si era trasferito al Trono dalla nativa Milano: lui faceva il ragioniere, loro gestivano un bar in paese, in un’epoca nella quale il mondo era più piccolo; mia madre ha tenuto all’asilo sua figlia, e insomma, si sono sempre un po’ frequentati. Inutile dire che anche io, sin da quando ero molto piccolo, accompagnavo mia madre a farsi segnare con una certa regolarità. All’epoca per me era una cosa normale, e anche un po’ noiosa visti i lunghi tempi d’attesa, ma non è che mi desse fastidio; col senno di poi, era anche molto suggestivo.
La mattina si entrava dal cencello, sempre aperto, e si posteggiava la macchina dove si poteva: spesso il parcheggio era già occupato, e idem i lati del sentiero accanto all’edificio, ma a volte si era fortunati e si riusciva a posteggiare in maniera decente. Entrati, c’era una sala d’attesa (o per meglio dire un corridoio) poco illuminata e molto spoglia, con un attaccapanni e un’ombrelliera vicino alla porta, e una decina di sedie; dietro l’angolo, un piccolo bagno nel quale non ricordo di essere mai entrato. Sulla destra c’era la porta dello studio, con eventuali avvisi attaccati sopra (come quella di un dottore), e un piatto di ceramica appeso sopra di essa, con il simbolo del Giulio: una croce e un triangolo sospesi in cielo che emanavano luce, la quale teneva a bada un groviglio di rovi neri che sembrava risalire dal basso.
Lui iniziava a lavorare più o meno alle 5 del mattino, se non prima (tutto questo, ovviamente, dopo essere andato in pensione), e già a quell’ora c’era diversa gente ad attendere sulla porta; verso le 8 andava in pausa caffè, e riprendeva per il resto della mattinata, più o meno fino a mezzogiorno, ma spesso a oltranza: di più, diceva la gente in attesa, non riusciva a fare, anche considerato che era sulla settantina. In ogni caso le persone lì sedute chiacchieravano del più e del meno, o uscivano a fumare o a prendere aria, e dato che spesso ritornavano (e nei medesimi giorni, causa orari di lavoro) finivano per conoscersi: un’atmosfera un po’ più intima rispetto a quella che si viene a creare nello studio di un medico.
Spesso e volentieri il Giulio (all’anagrafe Giulio Obbialero) usciva dallo studio accompagnando la persona che aveva appena finito di visitare, si guardava attorno e vedeva se c’era gente che sapeva avere casi urgenti o semplice fretta di dover tornare al lavoro, e la faceva accomodare prima degli altri. Era un uomo anziano, non molto alto, con gli occhi sporgenti, pochi denti, la pelle coperta di macchie e porri tanto da apparire quasi spaventoso a me che ero un bambino; compensava però con un viso sorridente, una voce squillante, e un carattere sempre allegro ed espansivo, ma al contempo cordiale e molto diretto. Profondamente religioso e convinto cattolico, era un appassionato di storia che ogni tanto si lasciava andare a frasi un po’ poco ortodosse come “Non dirlo ad alta voce, che gli dèi ascoltano!”, il tutto perfettamente inserito nel paradigma della religiosità popolare e della credenza sulla magia; in effetti la gente lo definiva un “pranoterapeuta”, ma credo che fosse una dicitura un po’ new age messa in giro da qualcuno, perché il Giulio con le discipline orientali non c’entrava proprio nulla.
Lo studio era una grande stanza arredata in maniera (involontariamente) suggestiva: il centro di tutto era una grande scrivania di legno, oltre la quale c’era la scala per andare al piano di sopra, e nell’angolo sinistro un camino sempre spento; la finestra era sulla destra, e a entrambi i lati della stanza c’erano mobili di legno dall’aria molto vetusta. In generale, per lo meno nei miei ricordi, c’erano molti oggetti su quei mobili, in particolare la grande statua di san Rocco, colui che allontana i mali, con tanto di cane e bastone non intagliato. Il Giulio sedeva alla scrivania, e dietro di lui spiccava una grossa foto in bianco e nero, in una cornice ellittica in legno lavorato, raffigurante una distinta signora, ovvero sua nonna.
Lui raccontava spesso di come fosse stata lei ad accorgersi della sua virtù, quando da bambino aveva notato come fosse in grado di tranquillizzare gli animali con estrema facilità. Anche lei era ovviamente una segnatrice, e a giudicare dall’età del Giulio, deve essere stata operativa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: era di Milano e, forse in vista del fatto che le città creano collegamenti più facili, c’era gente che veniva su anche dalla Calabria per farsi segnare da lei. Il nipote, operando in un paesino di provincia ed essendo schivo di natura (non ha mai rilasciato interviste né si è mai fatto pubblicità, e infatti credo che questo articolo sia più o meno tutto quello che troverete su di lui), aveva certo clienti che vengono da più vicino, ma solo per modo di dire: la gente in sala d’attesa veniva dal Varesotto, ma anche dal Comasco, dal Milanese, dalla Svizzera e probabilmente anche da oltre. Inoltre, a giudicare da quanta gente c’era ogni mattina, per tutti quegli anni, sono abbastanza sicuro che il numero di clienti fosse comunque enorme.
Operava in maniera molto classica, nell’ambito della segnatura, ma non era specializzato in qualche male particolare. L’ho visto fare i suoi “interventi di routine” numerose volte: aveva dei bigliettini con il suo simbolo (quello del piatto), dietro ai quali erano riportate alcune frasi del Vangelo; in genere li piegava fino a formare un triangolo, sui lati del quale tracciava in penna alcuni simboli (il punto, il cerchio, la croce fatta da quattro linee quasi come un cancelletto, e il pentacolo, che si ritrova molto raramente in segnatura), e poi li segnava con un grosso chiodo senza punta, riproduzione di uno di quelli di Cristo, benedetto e messo in giro dalla Chiesa in numero ristretto di esemplari, non si ricordava nemmeno più quando. Lo strumento più significativo era però una scatolina piatta e tondeggiante, talmente coperta di vecchio nastro adesivo da risultare marrone scuro, che usava per segnare direttamente la persona: non ho idea di che cosa ci fosse dentro, da tradizione poteva essere un insieme di erbe, medagliette, oggettini consacrati e via dicendo, il tutto però legato a lui personalmente. Si metteva anche a “costruire” piccoli feticci (chiamiamoli così) che i pazienti potevano portarsi a casa: ad esempio una croce formata da due immaginette della Madonna, tenute assieme da graffette, o una corda con vari nodi, o ancora medagliette da strofinare nei momenti di bisogno.
Ovviamente, come da buona tradizione, non chiedeva nulla, ma era le gente a lasciargli un’offerta: mia madre già pagava in denaro (non molto, ma del resto ci andava credo una volta al mese o quasi), ma tanti portavano salami, bottiglie di vino e cose simili. La gente andava volentieri da lui anche solo per la sua estrema disponibilità: tutti sapevano che, in momenti di grande crisi (e se eri abbastanza in confidenza da poterlo disturbare fuori dall’orario di lavoro), potevi chiamarlo a casa; mia madre racconta di come una volta, al telefono, l’abbia fatta sedere e detto di “segnarsi” da sé mentre lui diceva alcune preghiere. Le sue competenze, va detto, non si limitavano ai mali fisici: sempre mia madre racconta che una volta lo ha sentito distintamente recitare una preghiera d’esorcismo su un qualche paziente, e insegnava senza problemi preghiere per allontanare persone fastidiose o nocive. Poi, va da sé, la gente arrivava anche a credenze superstiziose come il fatto che potesse influenzare il corso degli eventi e, ad esempio, fare arrivare una persona a destinazione senza trovare traffico, al che lui rispondeva seccamente con frasi tipo “Ma adesso attribuite a me ogni cosa che vi capita?!”
Quando ormai ero già grandicello, e iniziavo a interessarmi di queste cose, la figlia ne aveva preso il posto nello studio grande, e lui si era trasferito in uno più piccolo fatto costruire poco tempo prima fra la parete a ovest e la porta del bagno (quando appunto la figlia aveva iniziato a segnare, dopo aver seguito anche corsi di pranoterapia e similia); lo studio era stato impostato da lei in maniera forse più fredda, ma sicuramente più funzionale, con visite su appuntamento e un’offerta fissa di 10 euro (per evitare di arrivare a fine mese con 100 euro in contanti e mezzo quintale di salami in cantina). Quando poi lui si è ritirato, ormai troppo vecchio per continuare e dopo essere tragicamente rimasto vedovo, il tutto è più o meno finito lì, fino alla sua morte in età piuttosto avanzata. La figlia, trasferitasi a Busto Arsizio dopo essersi sposata e aver avuto un figlio, ha operato per qualche tempo in uno studio che faceva pratiche come iridologia, reiki e così via, per poi semplicemente smettere. Mi sento però di dire che, anche solo a livello umano, il Giulio di Venegono ha lasciato un grande vuoto nel cuore di tantissime persone.

Un po' di oggetti da segnatura creati dal Giulio di Venegono.

Il demone maestro e il santo visitatore.

Santa Maria alla Fontana, ottima chiesa dove reclutare giovani streghe.

Negli ultimi anni, grazie a una posizione maggioritaria più moderata degli studiosi sulla questione dei processi per stregoneria (ovvero una via di mezzo tra Margaret “Un Grande Culto Stregonesco Europeo” Murray e Norman “Isteria di Massa & Tutte Cazzate” Cohn), anche a Venegono si è scoperto che c’erano le streghe. Nel 1999, Anna Marcaccioli Castiglioni ha riesumato alcuni testi dell’archivio dei suoi nobili antenati, scoprendo che nel 1520 il magnifico signore Fioramonte Castiglioni aveva fatto chiamare l’inquisizione perché il figlioletto era morto in culla a causa di un maleficio. Il frate domenicano Gioacchino Beccaria arriva in paese, sente un po’ di gente del posto e convoca alcune persone, accusate di stregoneria.
Che cos’era successo?
Caterina Fornasari era una giovinetta che conduceva una vita normalissima, senza sapere però che la madre Margherita era una strega. Elisabetta Oleari, quella a capo del gruppo della zona (che contava persone di Venegono Superiore e Inferiore, Castiglione e Vedano Olona) si informò presso di lei per sapere se la figlia fosse o meno portata per diventare una strega a sua volta; la madre disse di sì, dunque entrambe la presero da parte appena uscite dalla chiesa di Santa Maria alla Fontana, dopo la messa natalizia, e le dissero di andare con loro in un posto. Lei non aveva motivo di rifiutare, dunque le seguì fino alla sorgente del fontanile, dove incontrarono un uomo di mezz’età vestito di scuro e con un cappello di nero che le aspettava sulla strada. Si presentò col nome di Martino, e le due donne la invitarono a prenderlo come amante e compagno; lei pensava che si trattasse di un semplice contadino, e lui di contro le disse che, se lo avesse accettato come amante, avrebbe avuto giorni felici e non le sarebbe mancato nulla.
Le cose andarono avanti per alcuni anni: tutti i giovedì lei e le sue compagne si recavano a casa di Elisabetta, che possedeva un unguento che, spalmato su dei bastoni, permetteva di volare fino alla Silva Rupta (letteralmente il Bosco Rotto, che noi oggi non abbiamo idea di dove fosse); lì c’erano i loro demoni maestri ad aspettarle, uno per ognuna, e ovviamente Caterina cercava Martino e aveva rapporti con lui. Lo spirito la prendeva sia da davanti, come fa il marito con la moglie, sia da dietro, in quella maniera che altrove è detta mestlet; la ragazza non provava molto piacere nell’amplesso in sé, in quanto il membro di Martino, forse per il fatto che non era un essere umano, non era né turgido né caldo, ma adorava giacere con lui perché la baciava, la accarezzava e la coccolava come nessun altro faceva, dimostrandole quanto fosse importante per lui. Era il momento sacro delle streghe, quello in cui smettevano di essere donne comuni, e divenivano tramite tra il mondo materiale e l’Altrove.
Le streghe, quando non stavano alla Silva Rupta, se ne andavano in spirito a compiere vendette su coloro verso i quali avevano un qualche risentimento: non colpivano mai direttamente, ma sempre facendo del male a ciò a cui questi tenevano. Ed ecco allora che, infilandosi nelle serrature delle case e delle stalle, toccavano i buoi e li facevano ammalare, cullavano i neonati e li facevano morire, ed erano arrivate persino a toccare la gamba a un pastorello durante il giorno, e questa non era più tornata sana. Il nobile Castiglioni, signore di Venegono, non doveva essere uno stinco di santo se le streghe erano arrivate a uccidere il suo figlioletto nato da poco: il problema era che questi aveva i mezzi per vendicarsi, e infatti non aveva avuto paura di usarli, ospitando l’inquisitore nel suo castello appositamente adibito a tribunale, carcere e luogo di tortura. Era presente a quasi ogni interrogatorio, osservando con sguardo duro e impassibile tutti i convocati, suscitando tanta paura a Caterina che, continuando a implorare perdono, confessò tutto.
Ma il Beccaria non era un inquisitore dalla condanna facile: ad esempio, liberò quasi subito il povero Badono Fornasari, il fratello di Caterina, la cui unica colpa era stata quella di accompagnare la sorella e la madre a fare delle commissioni, senza capire che stavano facendo stregonerie. Un atteggiamento simile lo tenne anche nei confronti delle donne: Margherita Fornasari, a causa dell’età avanzata, morì in carcere, e fu forse per questo che le altre streghe accolsero con gioia la sua proposta di patteggiamento, ovvero che se avessero confessato sarebbe stata loro commutata una pena minore, come una penitenza pubblica o una multa salata.
Dunque tutte accettarono, sennonché il Beccaria venne richiamato alla sede centrale per altre questioni (non che fosse strana come cosa), e sostituito con un nuove inquisitore, Michele d’Aragona, che si ritrovò per le mani tutte le confessioni delle streghe, ma non aveva nessun vincolo da rispettare riguardo al suddetto patto, che non era stato lui a stringere. Indi per cui, quello stesso anno, tutte le donne incarcerate vennero condannate a morte, decapitate e i corpi bruciati tra le fiamme, inclusa ovviamente la povera Caterina.
Mi è capitato più volte di domandarmi se il demone Martino si aggiri ancora per queste zone alla ricerca di nuove adepte alle quali donare grandi poteri, e un giorno, parlando di tutt’altro, mia nonna mi ha raccontato un aneddoto successo diversi anni prima, ovvero che un eminente membro dei testimoni di Geova residente in paese era solito attendere la madre (evidentemente cattolica) fuori dalla chiesa di Santa Caterina, ed era solito vestirsi di scuro e con un cappello nero, tanto che la gente non riusciva a non trovarlo inquietante… e a parlarne male, manco fosse un demone. Anche se in effetti oggi i testimoni di Geova fanno più paura dei demoni, a ben pensarci…
Ovviamente anche Venegono ha i suoi santi ma, essendo comunque Venegono, persino essi sembrano mutare. Nella seconda metà del Cinquecento anche di qui è passato Carlo Borromeo, l’integerrimo e spietato arcivescovo di Milano, campione della Controriforma, uniformatore di tutte le chiese, e grande persecutore di eretici e streghe. In vita, egli era il fuoco dell’incendio che passava e distruggeva ogni cosa che intendeva opporsi a lui, lasciando dietro di sé solo distese nere e uniformi; in morte, è stato santificato quasi subito, divenendo il protettore dei vescovi e dei catechisti, coloro che imprimono a fuoco la mente dei bambini in modo da renderli dei perfetti cattolici, tutti che la pensano alla stessa maniera, tutti uguali come la cenere usata per riempire un barattolo vuoto. Un’entità terribile e spaventosa, che ha impresso il suo marchio su tutta la Lombardia, e anche oltre: ogni chiesa è stata rimodellata secondo il suo volere, e ognuna di esse è uno dei suoi occhi che scruta quanto accade tutt’attorno, con impietosa disapprovazione; in molte di esse ci sono immagini di lui che, in abiti rossi e dorati, viene investito di luce divina.
Eppure, anche il tremendo san Carlo può mutare aspetto, con le dovute precauzioni: a Santo Domingo, dove il cattolicesimo incontra le religioni africane e quelle amerinde, egli è diventato il benevolo Papà Candelo, l’allegro signore del fuoco (di cui il mio amico Luca ha magistralmente parlato in un articolo che trovate QUI). A Venegono egli è rimasto l’arcivescovo di Milano, ma in una veste ben lontana da quella che ha nelle chiese: se proseguite oltre la strada che fiancheggia Santa Caterina, prima di arrivare alla fontana che segna la strada per la Cascina del Trono, troverete una cappelletta bianca e piuttosto grande, alla quale si accede per mezzo di quattro gradini, e che presenta un affresco molto recente (è datato 1995) ma anche molto sentito: san Carlo Borromeo in viaggio. È ripreso, benedicente, nell’atto di raggiungere una non meglio precisata destinazione (forse la stessa Venegono?), a dorso di un asino bianco che cammina su uno sterrato che fiancheggia un campo di grano maturo, nel quale vola un passero; dietro di lui, alberi e una campagna verde con qualche paesello, tipica delle Prealpi, e in fondo una montagna su cielo azzurro, mentre sopra a tutto svettano due cherubini con il motto borromaico, Humilitas.
Tutto questo è ben lontano dal terribile e inflessibile santo che imponeva la sua morale reazionaria e faceva uccidere chi gli si opponeva, ma anche solo dal riformatore della Chiesa, l’inavvicinabile alto prelato che la gente guardava con timore e ammirazione: sembra quasi ricordarlo nella sua versione di visitatore delle parrocchie, che all’epoca doveva apparire, per lo meno ai fedeli, come l'incarnazione del fatto che la Chiesa si fosse finalmente ricordata delle sue pecorelle. Ma non è solo questo: viaggia in completa solitudine, come se non temesse nulla, su un animale che simboleggia al tempo stesso purezza, resistenza e umiltà, e sembra quasi benedire non qualcuno, ma la campagna stessa, che dona frumento in abbondanza. Insomma, il fuoco di san Carlo qui non ha più la valenza delle fiamme dei roghi, ma è il calore della primavera e dell’estate che fa germogliare la nuova vita: del resto, nei suoi tempi più sinceri, la Chiesa si è sempre occupata anche di questo. Non più santo cittadino, dunque, ma divinità contadina. E, per non dimenticare che egli è sempre e comunque il buon Papà Candelo, ecco che per qualche strana ragione un pezzetto della cappela, sul lato destro, è bruciata, non per indicare distruzione, ma come semplice ricordo della sua vicinanza al fuoco. E ancora oggi, a questa benevola versione di san Carlo Borromeo, si offre fuoco di candela.

La cappelletta di San Carlo Borromeo.

Le sciagure che calano dall’alto.

Direi che è piuttosto rispondente...

Venegono è letteralmente infestata dai corvi.
In realtà, a voler essere pignoli, si tratta di cornacchie grigie ma, si sa, il dialetto dei contadini non fa troppe distinzioni: sono tutti scurbatt, a eccezione della gazza. E qui più che altrove questi uccelli rendono onore alla loro nomea di accompagnatori della Morrigan. La gente di Venegono parla con fastidio, se non con inquietudine e paura, dei corvi che infestano i cieli del paese, arrecando dolore e spavento con la loro sola presenza; numerosi sono gli aneddoti che narrano delle loro malefiche imprese: quasi ogni venegonese, se non ha vissuto direttamente un’esperienza, ha sentito parlare di loro, dunque ne riporterò qualcuno raccontatomi dai parenti…
In una grande villa con un immenso giardino, il padrone era solito tenere in libertà galli, galline, oche, tacchini e anatre, facendoli riprodurre senza problemi: ebbene, i corvi si appostavano sugli altissimi pini che sovrastavano il pollaio all’aperto, e non appena pareva loro che fosse il momento propizio, scendevano in picchiata per aggredire quelle povere bestie. E non si limitavano a rubare le uova: rapivano i pulcini, in gran quantità, e persino gli uccelli adulti. Mio nonno ne ha visto uno acchiappare un’anatra da terra, grande quanto lui, e sollevarla per portarsela via.
Ma se pensate che agiscano solo per fame, vi sbagliate di grosso. Essi uccidono principalmente per puro divertimento, sperimentando modi sempre nuovi e sempre più atroci.
Un signore aveva comprato alcuni pulcini e li aveva messi in una scatola di cartone, coperta da una rete, con una lampadina per tenerli caldi e del becchime sul fondo. Un giorno soleggiato decise che sarebbe stato salutare per essi prendere una boccata d’aria, così prese la scatola e la mise nel suo giardino. Allontanatosi per qualche minuto, al suo ritorno non riusciva a credere a quanto era successo: la rete era stata perforata, e i poveri pulcini giacevano all’interno della scatola in un lago di sangue, tutti privati della testa, dal primo all’ultimo. L’uomo, non sapendo come pulire quell’orrore, diede fuoco all’intero oggetto.
Quale animale si sarebbe nutrito delle teste di quei poveretti, ignorando totalmente la carne stessa? Nessuno potrebbe credere che l’assassino abbia agito per fame...
E ancora, un uomo e sua madre avevano un cagnolino molto vecchio, che ormai stava per lasciare questo mondo. Non avevano voluto farlo sopprimere, così lo avevano lasciato tranquillo sul marciapiede del cortile, in attesa che spirasse da sé. La donna non resisteva alla vista di quel poveretto agonizzante, e così andò in casa; il figlio fece lo stesso, per tornare di lì a qualche minuto. Ma del cane s’era persa ogni traccia; eppure il cancello era chiuso, nessuno avrebbe potuto entrare a rubarlo, men che meno in così poco tempo! Non aveva tenuto conto, l’uomo, che il pericolo era venuto dall’alto: un corvo, avendo percepito come sempre l’odore della morte, si era appostato sul tetto della casa, attendendo pazientemente che i due umani si allontanassero; poi era sceso, aveva afferrato il cagnolino coi suoi artigli e lo aveva rapito. E a quel punto i due padroni non poterono che versare lacrime amare: non avevano voluto dare al loro animale una morte rapida e indolore, e ora lo sapevano morto non di vecchiaia, ma a causa dei becchi dei corvi, spolpato ancora vivo (o, nel migliore dei casi, spiaccicato al suolo dopo essere stato lasciato andare dal suo assalitore).
La gente si chiede se la fredda perfidia di questi esseri abbia un limite. Fatto sta che paiono immortali: alcuni coraggiosi hanno perfino tentato di impallinarli, ma senza risultato, e anzi sono rimasti vittime di ictus poco tempo dopo aver compiuto un’azione tanto spavalda. I corvi, di contro, ogni giorno diventavano sempre di più. Come dico sempre parafrasando Tertulliano, il sangue dei corvi di Venegono è un seme!
Mia nonna, ogni volta che in casa si mangia carne, si premura di tenere da parte le ossa, che si avvede di non pulire troppo bene, poi le getta nel prato. Tempo un’ora, le va a raccogliere, trovandole sempre bianche come fossero state passate nell’aceto. Questo è il suo tributo ai tremendi figli del cielo.
L’ultimo spirito di cui voglio parlare, per questa carrellata, è quello della tempesta.
Se non siete mai stati sul Seprio, difficilmente potreste immaginare la rapida violenza con la quale i temporali estivi si abbattono in queste zone: sembrano quelli di montagna, ma avvengono in collina, e per il fatto di non avere l’ostacolo visivo dei monti sono alquanto spettacolari, oltre che terribili.
Ricordo distintamente quando, da ragazzino, ne scoppiò uno mentre io e mio fratello attendevamo il ritorno di nostra madre dal lavoro: la nonna ci portò in torretta per mostrarci per bene quello che stava accadendo, e fu davvero impressionante. Il cielo era letteralmente nero nonostante fosse primo pomeriggio, i fulmini e i lampi si alternavano quasi senza tregua, i tuoni erano talmente forti che sembravano far tremare la casa sin nelle fondamenta. E chiariamo, è una vecchia casa bella solida.
Poi ha iniziato a grandinare, e davvero sembrava non finire più, mentre io e mio fratello ci tappavamo le orecchie tanto era assordante quel rumore. Non ricordo quanti danni abbia fatto il maltempo, sta di fatto che è stato davvero uno spettacolo… a suo modo. E fenomeni del genere non sono inusuali a Venegono, con tutto ciò che ne consegue. Quindi è importante tributare onore anche alla tempesta…
 
Strada o fiume? I misteri del dopo-tempesta...

Lo stregone del Monte Rosso.

Il Castello Castiglioni, oggi dei missionari comboniani.

È facile immaginare come tutto questo abbia contribuito alla creazione di padre Cornelio, lo stregone di Kata Kumbas, che da giovane venne venduto dal patrigno, dopo la tragica morte della madre, a un monastero dove, per il fatto di essere storpio, veniva tenuto segregato. Una volta uscito, ormai vecchio, si era vendicato della famiglia adottiva, ed era stato iniziato alle arti della stregoneria nientemeno che dalla Signora del Gioco in persona. Il suo scopo era quello di tornare giovane e poter vivere la vita che gli era stata tolta, e solo a quel punto erano cominciate le sue avventure, che lo hanno portato non solo in Lombardia, ma anche in Veneto, in Romagna, in Umbria, nel Lazio, in Abruzzo, in Campania e in Trentino, per tornare infine proprio a Venegono, dove aveva ottenuto ciò che voleva.
Già all’epoca lo avevo creato pensando a tutte le cose che ho descritto prima, connesse al paese: il monastero dove stava è quello dei missionari comboniani (l’ex castello dei Castiglioni), aveva poteri come far scaturire rovi neri dal terreno, mutarsi in corvo, provocare tempeste, trasformarsi in drago e, alla fine della storia, è andato a vivere alla Silva Rupta, dove ha tenuto il Grande Gioco, e che oggi coincide con la Cascina del Trono. Il mio buon master ha pensato anche di metterci il demone Martino col cappello nero e la Santa Inquisizione, giustamente, e ha persino inserito Cornelio, assieme ai suoi due compagni, in un’avventura pubblicata nel volume Kata Kumbas - Avventure per Laitia, dal titolo Una notte sul Monte Rosso, e ispirata ai processi venegonesi.
Ho dunque voluto trascrivere alcune storie di questo misconosciuto paesino, ignorato da tutti ma ricco di suggestioni, estremamente pulito e tranquillo, e abitato da gente ancora generosa e altruista. E perché, nonostante l’oscura presenza dei corvi (e delle nocciole), per quanto ancora si racconti di demoni e stregoni, e per quanto (e questa è la cosa davvero tremenda) a governare sia la Lega, anche qui la vita non smette di fare il suo corso, di nascosto, ma senza dimenticare le proprie tradizoni. Gli spiriti sono attivi qui più che altrove, mi viene da pensare, omaggiando tutti lo scorrere della grande Olona.
Ieri infatti, mentre ero a leggere sotto il nocciolo, un corvo è atterrato piuttosto vicino, ci siamo salutati, poi una coppia di tortore gli è piombata addosso e lo ha cacciato via. E solo stamattina, alzando la testa, ho capito perché.