giovedì 3 novembre 2016

Storia della Magia 05 - L'alchimia



LE ARTI DEL METALLO

Efesto dona a Tetide le armi di Achille.

Tutta la pratica alchemica si basa su un concetto diffuso un po’ ovunque nel globo: i vari tipi di metalli non sarebbero diversi fra loro, ma si tratterebbe di una stessa sostanza che “matura” nel grembo del terra, nel corso dei millenni; quando dunque la terra li “espelle” per qualche ragione, essi compaiono in superficie a vari gradi di maturazione, l’ultima delle quali è il metallo più nobile, l’oro. L’opera dell’alchimista è dunque quella di sostituirsi artificialmente al tempo, di modo da poter far maturare i metalli fino allo stato desiderato.
Per l’uomo, il metallo ha sempre avuto una connotazione divina, sia perché in parte esso compariva misteriosamente dalle viscere della terra, sia perché cadeva dal cielo (il ferro meteorico fu per millenni l’unico ferro a cui gli uomini ebbero accesso): per tale ragione, presso molti popoli del mondo, il fabbro ha avuto un’importanza mistica, al pari dei sacerdoti e degli sciamani, poiché era in grado di creare, tramite la conoscenza del fuoco (il principale strumento di accelerazione del tempo), oggetti del tutto nuovi; la stessa arte della forgia era considerata operazione sacra, con tanto di liturgie e sacrifici. Del resto, presso molti popoli, il mondo viene creato dalla materia inerte, e gli stessi uomini nascono dalla pietra: allo stesso modo dunque il fabbro prende il “feto” di metallo grezzo e gli dà nuova vita. Non a caso, nella varie mitologie il fabbro divino è colui che fornisce le armi agli dèi per abbattere le forze maligne (Efesto forgia le folgori di Zeus, Tvashtri quelle di Indra, i nani donano a Thor il martello da usare contro i Giganti, e così via).

L’ALCHIMIA ALESSANDRINA

I tre stadi del processo alchemico: nigredo, albedo e rubedo.

La tradizione vuole che il fondatore dell’alchimia sia Ermete Trismegisto, ovvero il dio egizio Thoth, che ne avrebbe scritto le basi nella Tavola di Smeraldo (un breve testo giunto a noi solo in traduzione latina dall’arabo); nel periodo ellenistico, particolarmente ad Alessandria, questa pratica si sviluppò in un ambiente multiculturale, attingendo non solo all’ermetismo, ma anche al pitagorismo, al platonismo, all’ebraismo, al cristianesimo e allo gnosticismo. I più celebri alchimisti furono la profetessa Maria la Giudea (vissuta tra il I e il III secolo), che inventò la cottura nel bagno di acqua bollente (da qui il termine “bagnomaria”), e Zosimo di Panopoli (III-IV secolo), di cui ci sono arrivati alcuni scritti e che per primo intese l’alchimia come percorso spirituale oltre che come procedimento chimico.
In questo periodo nacquero molte delle simbologie e delle concezioni che caratterizzarono l’alchimia nei secoli successivi. Il processo alchemico sarebbe dovuto avvenire in sette parti, ovvero quattro operazioni (putrefazione, calcinazione, distillazione e sublimazione) e tre fasi (soluzione, coagulazione e tintura). La materia in fase di trasmutazione nella fornace avrebbe seguito tre stadi: quello nero (nigredo, nel quale si sarebbe dissolta), quello bianco (albedo, nel quale si sarebbe purificata) e quello rosso (rubedo, nel quale si sarebbe ricomposta); in origine, prima del rosso, esisteva anche il giallo (citrinitas), eliminato poi dagli alchimisti rinascimentali. Queste fasi erano simboleggiate da alcuni uccelli: la nera dal corvo, la bianca dal cigno, e la rossa dalla fenice, che secondo la tradizione rinasce delle proprie ceneri; altro animale spesso usato in alchimia è l’ouroboros, il serpente che si morde la coda, simbolo della ciclicità del tempo e del principio di rigenerazione. Infine, in concordanza con l’astrologia, tutti i metalli avevano un’affinità coi pianeti: il mercurio era connesso a Mercurio, il rame a Venere, il ferro a Marte, lo stagno a Giove, l’argento alla Luna, l’oro al Sole e il piombo a Saturno.

L’ALCHIMIA ARABA

La Tavola di Smeraldo di Ermete Trismegisto.

Dopo la distruzione della Biblioteca di Alessandria, lo studio dell’alchimia si spostò al mondo arabo, dove essa venne sviluppata sia dal punto di vista chimico che mistico. Compaiono in quest’ambito, e per la prima volta, gli elementi alchemici dello zolfo e del mercurio, uniti ai cinque elementi tradizionali (terra, acqua, aria, fuoco ed etere): il primo sarebbe maschile e combustibile, il secondo femminile e volatile, e dalla loro unione si genererebbero tutti i metalli.
Per quanto riguarda la parte chimica, l’alchimista più importante fu al-Razi (865-930, conosciuto in latino come Rhazes), che perfezionò l’arte della distillazione e scoprì alcuni nuovi acidi (cloridrico, solforico, nitrico e l’acqua regia), oltre che alla soda (al-natrun) e al potassio (al-qali); gli stessi nomi di alcuni termini mantenuti poi dall’alchimia e dalla chimica occidentale sono arabi: atanor (fornace), azoth (al-zawq, mercurio), alcool (al-kohl), elisir (al-iksir) e alambicco. L’alchimia araba sostenne inoltre di poter trasmutare il ferro in platino, e aggiunse un terzo elemento fondamentale, il sale, ovvero la tangibilità, che entrò a far parte di tutta l’alchimia successiva
Il più celebre degli alchimisti musulmani fu però il filosofo Jabir (721-815, Geber in latino): egli analizzò i vari elementi in base alle qualità di caldo, freddo, secco e umido, e ipotizzò che, essendo in ogni metallo due di queste interne e due esterne, mescolandole opportunamente si sarebbe potuto ottenere un metallo diverso (dando origine per la prima volta al concetto di “pietra filosofale”). L’opera finale di Jabir sarebbe stata, secondo quanto scrisse nel suo Libro delle Pietre, la creazione in laboratorio della vita (la cui concezione rimase nell’alchimia occidentale, dando origine alla credenza di poter creare un homunculus, ovvero un essere umano nato senza fecondazione tradizionale).

L’ALCHIMIA OCCIDENTALE

Tommaso d'Aquino e il Rabis, l'androgino simbolo dell'unione degli opposti.

Fu Roberto di Retines, nel 1144, a tradurre per primo i testi alchemici dall’arabo al latino, consentendo così la loro diffusione in Europa. Il clero fu il primo ad aderire all’idea della possibilità di trasmutare i metalli: papa Silvestro II, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino scrissero in merito a quest’arte, sebbene il primo vero alchimista occidentale fu il francescano Ruggero Bacone (1214-1294), che teorizzò il procedimento scientifico come metodo di conoscenza; importanza rilevante ebbero anche Arnaldo da Villanova e Raimondo Lullo, sempre membri della Chiesa, la cui abilità nell’alchimia divenne leggendaria. Nonostante questo, la bolla Spondent Pariter di Giovanni XXII, emanata nel 1317, vietò la pratica alchemica; quest’arte venne tenuta viva grazie ad alcuni laici come Nicolas Flamel, che la leggenda vuole sia riuscito a ottenere l’immortalità. Si può dire in generale che, nel Medioevo, l’alchimia occidentale si concentrò soprattutto sulla ricerca della pietra filosofale e dell’elisir di lunga vita, interpretando la trasmutazione del piombo in oro come allegoria della purificazione dell’anima.
Il Rinascimento vide da un lato l’aggiunta di concezioni magiche all’alchimia (a opera soprattutto di Cornelio Agrippa), e dall’altro la sua epurazione dai concetti mistici a opera del medico Paracelso (1493-1541), che spostò l’attenzione della pratica dalla trasmutazione dei metalli all’uso medicinale del bilanciamento dei princìpi chimici corporei: egli sostenne che, simbolicamente, zolfo e mercurio componevano tutti gli esseri, e le malattie erano squilibri fra questi elementi; Paracelso fu anche il primo a teorizzare l’alkaest, ovvero la medicina universale. Durante questo periodo l’utilizzo di termini religiosi non era necessariamente una precauzione contro la censura ecclesiastica: Von Welling (1655-1727) scriveva infatti che “il nostro intento  non è insegnare a fabbricare l’oro, ma è molto più nobile: è cioè di rivelare le modalità per concepire e riconoscere la Natura come emanazione divina e per vedere Dio nella Natura.” Per questo, secondo Croll (1560-1609), gli alchimisti sono “uomini santi, che con la virtù del loro spirito divinizzato hanno goduto, già in questa vita, i primi frutti della Resurrezione e hanno avuto un assaggio del Regno dei Cieli”.
Con la Rivoluzione Scientifica e l’avvento del pensiero razionalista e materialista, presso l’opinione pubblica l’alchimia venne ridotta ai suoi soli procedimenti materiali, basati su concezioni superstiziose, e allontanata dall’ambito degli studi; a ciò si aggiunsero una miriade di falsari che vendevano oro finto spacciandosi per alchimisti, il che non fece altro che peggiorare ulteriormente la reputazione di quest’arte. Nonostante questo, essa è riuscita a perdurare fino a oggi, soprattutto in ambienti massonici.

L’ALCHIMIA INDIANA

Il lingam, il fallo del dio Shiva.

In India, l’alchimia (rasayana, “via del mercurio”) è sempre connessa alle pratiche dello yoga e del tantra: si diceva infatti che gli alchimisti di quelle zone riuscissero, attraverso la ritmizzazione del respiro (pranayama) e l’utilizzo di medicamenti vegetali e minerali, a prolungare indefinitamente la propria giovinezza e perfino a trasmutare in oro gli altri metalli; lo yogin opera sul proprio corpo e sulla propria mente, l’alchimista sulle sostanze inerti: entrambi mirano a purificare le materie impure e a trasmutarle in “oro”, liberandosi così dai vincoli della materia, permettendo così la liberazione dell’anima. Non deve dunque stupire se in India queste due figure finirono per coincidere.
Molti studiosi hanno sostenuto che questa alchimia si sia sviluppata a partire da quella araba ma, se questo è in parte vero (soprattutto per quel che concerne lo sviluppo della chimica), molti testi hindu e buddhisti precedenti all’arrivo dell’islam in India parlano della trasmutazione dei metalli tramite le erbe e le pratiche tantriche; anzi, sarebbe stato lo stesso Shiva, dio del tantrismo (di cui il mercurio sarebbe il seme fecondatore), a rivelare l’alchimia agli uomini. I testi esplicano che il laboratorio deve essere posto nella foresta, lontano da ogni impurità, e che l’adepto deve essere intelligente, devoto, senza peccato e padrone delle proprie passioni. In termini alchemici, ridurre la fluidità del mercurio equivale alla trasmutazione del flusso psico-mentale in una soppressione degli stati di coscienza (chittavrttinirodha): per questo il “mercurio fissato” può trasmutare i metalli, e se ingerito può rendere immortali; questo perché Shiva, dio della liberazione, permette la divinizzazione tanto del corpo umano quanto dei metalli.
I testi alchemici, e in particolare quelli di Nagarjuna (X secolo), il più famoso alchimista indiano, non parlano mai esplicitamente delle operazioni da compiere; da un lato, comunque, lo sviluppo della chimica tramite quest’arte giunse a conoscenze più avanzate rispetto alla sua controparte occidentale (l’uso per via interna dei calcinati o le variazioni del colore della fiamma durante l’analisi dei metalli), dall’altro la sperimentazione aveva un valore yogico-tantrico.

L’ALCHIMIA CINESE

Un drago con la perla.

Gli alchimisti daoisti furono i continuatori di tradizioni arcaiche che parlavano della ricerca dell’elisir dell’immortalità e della beatitudine che esso poteva conferire; come altrove, l’alchimia cinese (fondata tradizionalmente da Tsou Yen nel IV secolo a.C.) credeva della possibilità di poter trasmutare i metalli in oro e nel valore salvifico di questa operazione. I processi alchemici erano complessi: l’imperatore Han Wu Ti (156-87 a.C.) parlava dell’evocazione dei Sacri Immortali tramite un sacrificio nel forno, ed essi avrebbero potuto trasmutare il cinabro (una lega di zolfo e mercurio, simbolo di morte e rigenerazione) in oro, col quale creare utensili per mangiare, e diventare così immortali; l’alchimista doveva vivere in solitudine, meditare, digiunare cento giorni e purificarsi prima delle operazioni, le quali si trovavano solo parzialmente nei libri, poiché il resto veniva tramandato oralmente. Alla base di tutto sta sempre il principio per il quale l’alchimista accelera artificialmente l’azione del tempo, trasformando il metallo vile in quello più puro.
Secondo la concezione daoista, ogni elemento ha in sé i princìpi cosmici dello yin (negativo) e dello yang (positivo): l’oro e la giada (meno spesso la perla) ottenuti con l’alchimia sarebbero puro yang, in grado dunque di preservare i cadaveri dalla corruzione o di rendere eternamente giovani tramite l’ingestione (o, come visto, con la creazione di utensili con cui mangiare). Questo perché il corpo dell’uomo è un microcosmo, specchio del macrocosmo, e dunque formato dai cinque elementi (acqua, fuoco, legno, metallo e terra) corrispondenti a cinque organi (reni, cuore, fegato, polmoni e stomaco): rafforzando alcune essenze lo si può migliorare e rinnovare, fino a penetrare nel proprio caos interiore per risorgerne a nuova vita. Questo processo venne poi sviluppato dal buddhismo zen con l’aggiunta di pratiche yogiche della respirazione basato sulle similitudini macro-microcosmiche in chiave spirituale.

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