giovedì 29 settembre 2016

Il fascio, la croce e il sangue



 
Il "martirio" di don Reginaldo Giuliani; tenete a mente quella lancia.

Di recente mi è capitato di leggere un libro che consiglio caldamente (e dal quale provengono le citazioni qui di seguito, quindi evito la notazione per non appesantire troppo): Il papa non deve parlare - Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, di Lucia Ceci ed edito da Laterza, con una prefazione di Angelo Del Boca. È stata una lettura più interessante del previsto, oserei dire illuminante, perché esplica il vero volto del cattolicesimo italiano di epoca fascista, quello che in genere non viene raccontato.
La persona media cosa sa di esso? Ricorda i Patti Lateranensi (che ancora gravano sull’Italia attuale, in un certo senso), forse ricorda la figura di don Sturzo come oppositore del fascismo e fondatore della DC, al massimo conosce padre Gemelli se è andato alla Cattolica di Milano. Eppure pochi saprebbero dire com’era realmente la religione ufficiale dell’Italia fascista, quali erano le sue manifestazioni più eclatanti, e soprattutto che rapporto aveva con la guerra coloniale, quella guerra che mi sento di definire (per l’Etiopia come per la Libia) un inutile bagno di sangue innocente.

IL PAPA AVREBBE DOVUTO PARLARE…
Riassumo brevemente l’impresa coloniale fascista nel Corno d’Africa, prima dello scoppio della guerra.
In Etiopia (dove gli Italiani di fine Ottocento avevano dato avvio a una disastrosa campagna di conquista, riuscendo a mantenere solo una postazione), il fascismo si era prodigato per fomentare i capi feudali ostili al sovrano, fra i quali Hailè Selassiè, ed egli, una volta salito al trono, attuò una politica di modernizzazione dello Stato, ma senza particolari interessi per l’amicizia italiana. Mussolini inviò un grande numero di soldati: in questo modo ogni rione, parrocchia e villaggio avrebbe avuto in Africa i suoi “ragazzi di leva”, accrescendo la propaganda del regime; nell’ottobre 1935 vennero inviati nel Corno d’Africa 330.000 uomini (più 90.000 ascari), equipaggiati con centinaia di aerei e carri armati, agli ordini di De Bono, il quale non seppe mantenere l’unità delle truppe e venne sostituito un mese dopo da Badoglio; l’anno seguente il nuovo generale era pronto ad affrontare le truppe del re locale (250.000 uomini male armati), che vennero sconfitte in cinque battaglie, poiché esse accettavano lo scontro in campo aperto anziché darsi alla guerriglia, e perché gli Italiani usavano contro di loro armi chimiche (che nonostante la proibizione del 1925 erano state mantenute e incrementate): il generale entrò così trionfante ad Addis Abeba.
Tuttavia negli anni seguenti le truppe etiopi, sostenute dalla popolazione, continuarono le loro operazioni di resistenza, stavolta da guerriglieri: per tutta risposta il nuovo governatore Graziani, dopo un fallito attentato nel 1937, iniziò a deportare i dissidenti in campi di concentramento, a perseguitare cantastorie e stregoni, a distruggere monasteri e a sterminare il bestiame. Tutto ciò non servì a nulla (gli Italiani restarono padroni delle città ma non delle campagne), dunque Mussolini sostituì Graziani con Amedeo Savoia, che dal 1938 si sforzò di reimpostare la politica coloniale, dimostrando maggior rispetto per la cultura indigena, abbandonando le repressioni e cooptando personale locale per la gestione del territorio, trovando però molta resistenza per chi, fra i suoi, speculava sulla guerra.
Qual era il problema di tutto questo?
In realtà erano molteplici, ma io ne vedo principalmente due: il primo, era che attaccando l’Etiopia il Duce stava contravvenendo alle disposizioni della Società delle Nazioni, che reagì vietando ogni commercio con l’Italia per i Paesi membri (con conseguenze che poi vedremo); il secondo, moralmente più importante, era che non esisteva nessuna buona ragione per iniziare una tale impresa: come fece notare il papa stesso, la conquista di una terra povera, malarica e abitata da fieri combattenti in che modo avrebbe potuto giovare all’Italia? Non c’era sovrappopolamento, l’Etiopia non aveva risorse da fornire, dunque la realtà era semplicemente che il Duce voleva farsi vedere, mostrare al mondo che anche lui poteva conquistare un Paese straniero, in un periodo nel quale la liceità del colonialismo stesso stava venendo messa in discussione. Insomma, un progetto davvero al passo coi tempi.
Come detto, Pio XI (e in generale l’alto clero vaticano, ovvero quello che viveva alla sua corte in San Pietro) era fortemente contrario all’impresa: e tuttavia solo una volta, durante un discorso a Castelgandolfo, in una specie di colpo di testa il papa disse tutto quel che pensava riguardo la campagna etiopica, e non furono belle parole. Quel che mi ha veramente sorpreso è ciò che è successo dopo: le testate giornalistiche cattoliche, primo fra tutti l’Osservatore Romano, pubblicarono quel discorso in versione modificata, facendo in modo che apparisse che il pontefice fosse d’accordo con la guerra (o per lo meno che non la vietasse), e questo perché tutti gli Italiani cattolici (clero incluso) erano potentemente fascistizzati. Pio XI a quel punto si chiuse in un silenzio che perdurò per tutto il resto dell’impresa africana, perché sapeva che, se avesse detto altro, avrebbe perso tutti i privilegi dei Patti Lateranensi. Il Duce stesso ovviamente pensò bene di rammentarglielo con un bel promemoria: “Il Governo Fascista si augura che nel discorso che il Pontefice intendesse pronunciare, non ci sia nulla che possa prestarsi al giuoco dei nemici dell’Italia, non ci sia nulla, cioè, che possa turbare i rapporti tra Stato italiano e Santa Sede, rapporti che, dal 1931 in poi, sono stati, più che corretti e normali, cordiali e amichevoli.”
I Cattolici nel resto del mondo, dall’Europa agli Stati Uniti all’America Latina (primo fra tutti don Luigi Sturzo) assistettero a tutto ciò con imbarazzo, rammarico e indignazione; e a fomentare il loro sconforto non era solo l’atteggiamento del papa, ma soprattutto quello dei loro correligionari italiani, che ora vedremo. Dunque teniamo bene a mente che quello che sto per raccontare non fu l’atteggiamento del cattolicesimo tout court, ma unicamente di quello italiano.

LA CROCIATA ETIOPICA: DEUS VULT!
Per parlare del clero fascista mi sento in dovere di partire dall’arcivescovo di Milano, Ildefonso Schuster.
Si tratta di una figura canonizzata nel 1996 ma che, come ebbe modo di farmi notare un amico, è molto popolare presso la sua città: per fare un esempio, ne potete trovare una statua nella sede staccata della Statale in via Sant’Antonio. E in generale è visto come una persona “neutralmente buona”, in quella maniera in cui tutti i santi, privati della memoria di quel che furono in vita, diventano archetipi dei buoni sentimenti cristiani. Ma il cardinal Schuster fu anche uno dei più infervorati sostenitori del fascismo (almeno prima delle leggi razziali), tanto che spesso le sue omelie in Duomo venivano trasmesse per radio, e comunque sempre riportate sui giornali.
Il 28 ottobre 1935 commemorò la Marcia su Roma, “non una celebrazione puramente politica, ma una festa essenzialmente cattolica”: essa aveva infatti aperto, disse, “un nuovo capitolo della storia della Chiesa Cattolica in Italia”, in quanto i Patti avevano restituito “Dio all’Italia e l’Italia a Dio”; diceva infatti: “Veggo l’effige Divina del S. Crocifisso restituita nelle aule scolastiche; leggo dell’insegnamento catechistico impartito nelle scuole ai Balilla, agli Avanguardisti, a moltissime migliaia di ragazzi, a cui la Patria vuole assicurare un’educazione sana e veramente cristiana ed italiana.” Ma fin qui, si potrebbe dire, non c’era nulla di strano: era semplicemente un sacerdote che, per opportunismo o per genuina fede, apprezzava le scelte fascista riguardo la dottrina cattolica. Forse il suo discorso per la proclamazione dell’impero, quando se ne uscì dicendo che Mussolini era il novello Costantino e l’Italia fascista nientemeno che il precursore del regno di Cristo in terra, era un po’ esagerato, ma comunqe…
Quel che era veramente poco cristiano era l’atteggiamento che teneva nei confronti dell’impresa etiopica perché, si sa, se il fascismo ha fatto una cosa buona, inevitabilmente sarà buono anche tutto il resto. Ed ecco infatti che “sui campi d’Etiopia il vessillo d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza le catene degli schiavi, spiana le strade ai Missionari del Vangelo”, e invocava “pace e protezione all’esercito valoroso, che in ubbidienza e intrepido al comando della Patria, a prezzo di sangue apre le porte di Etiopia alla Fede Cattolica e alla civiltà romana”. Si trattava, insomma, di una vera e propria crociata contro gli Etiopi, popolazione sì cristiana, ma eretica, e soprattutto arretrata e schiavista: il Duce aveva giustamente detto che si sarebbe andati lì per portare loro pace e giustizia, ma a questo punto, diceva Schuster, anche la vera fede. In effetti lo schiavismo era molto diffuso in Etiopia (seppur formalmente abolito dal negus Teodoro II quasi un secolo prima), sebbene fosse solo domestico e non agricolo o industriale.
C’è comunque da dire una cosa importante, ovvero l’unione di fascismo e cattolicesimo non era meramente tattica, ma anche sostanziale: la diffidenza verso la libertà civile e le varie forme di discussione, il culto dell’autorità e il bisogno di disciplina furono forti elementi d’unione per combattere il liberalismo, il comunismo, la massoneria e il protestantesimo; ciò si doveva anche al fatto che tutti i vescovi allora in carica erano stati formati a fine XIX secolo, sotto la visione oscurantista e antimodernista di Pio X, e non avevano gli strumenti intellettuali per ribattere o anche solo resistere alla propaganda fascista: avrebbero dovuto essere persone di cultura, atte a guidare la coscienza della propria parrocchia, ma in realtà la loro pochezza intellettuale li aveva trasformati in burattini del regime, come tutti gli altri.
Come abbiamo detto, però, la Società delle Nazioni aveva proibito il commercio con l’Italia, indi per cui, se il governo voleva portare avanti l’impresa, abbisognava di fondi. La campagna per la consegna dell’oro alla patria in armi (dove i cittadini donarono al governo i loro preziosi per sostenere economicamente la campagna bellica) fu il momento in cui si realizzò una plateale convergenza tra fascismo e cattolicesimo: il clero si sprecò letteralmente in omelie di propaganda fascista ammantate di concetti religiosi, e le associazioni donarono molto oro (alcuni vescovi cedettero pure l’anello episcopale, diedero ordine di fondere gli ex voto e di requisire le medagliette delle comunioni); si arrivò addirittura, il 18 dicembre, alla Giornata della Fede, dove gli Italiani donarono le loro fedi nuziali in cambio di fedi di ferro, sposando quindi idealmente la patria in un rito catto-fascista officiato dai sacerdoti stessi. In tale occasione la Chiesa provvide anche a esaltare il ruolo delle donne (e in particolare delle vedove) che si separavano dal ricordo dei loro mariti per il bene della nazione (Elena di Savoia portò anche in solenne processione la sua coppia di fedi alla tomba del Milite Ignoto). Furono pochi i vescovi che limitarono questo tipo di celebrazioni, col preciso intento di non fare politica, fra i quali lo stesso Schuster, che officiò solo una cerimonia privata a causa delle polemiche suscitate dal suo precedente discorso (ovviamente all’estero).
Con la sconfitta del negus etiope e la proclamazione dell’impero, il 9 maggio 1936, i Cattolici esultarono per la vittoria nonostante le misure belliche antiumanitarie usate dai Fascisti; riporto un passo in merito,  parte di un discorso fatto a Ginevra proprio dal re Hailè Selassiè, e che mi ha particolarmente colpito: “Fu all’epoca dell’operazione di accerchiamento di Macallè che il comando italiano, temendo una disfatta, applicò un procedimento che ho ora il dovere di denunciare al mondo. Dei diffusori furono installati a bordo degli aerei in modo da vaporizzare, su vaste distese di territorio, una sottile pioggia micidiale. A gruppi di nove, di quindici, di diciotto, gli aerei si succedevano in modo che la nebbia emessa da ciascuno formasse una coltre continua. Fu così che, a partire dalla fine di gennaio 1936, i soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i laghi, i pascoli, furono di continuo spruzzati con questa pioggia mortale. Per uccidere sistematicamente gli esseri viventi, per avvelenare con certezza le acque e i pascoli, il comando italiano fece passare e ripassare gli aerei.” Il che, aggiungo, era proprio il modo di combattere fiero, coraggioso e virile dell’uomo fascista. Ma ovviamente tutto questo agli Italiani  non importava (e men che meno ai Cattolici): avevano vinto! Esponenti del mondo della cultura si prodigarono per esaltare il novello impero (Pirandello, Marconi, Gentile, il solito D’Annunzio), mentre il clero si trovava compatto a rendere omaggio con preghiere alla vittoria italiana. Si disse infatti che la vittoria, avvenuta a maggio, era opera della Madonna, che il fascismo era opera della Provvidenza; i media cattolici si prodigarono nell’esaltazione di Massaja e del più recente Reginaldo Giuliani, tanto da rendere loro tributo con dei film.

IL MARTIRE FASCISTA E I SUOI NEMICI
Il fascismo avrebbe garantito la protezione al missionarismo cattolico in Etiopia, cosa che era stata invece ostracizzata dal negus all’alba dell’invasione: in questo modo, per il clero si prospettava una vera e propria missione di cattolicizzazione del Corno d’Africa. I sacerdoti stessi iniziarono a scrivere articoli e comporre opere liriche nelle quali esaltavano l’unione del fascio e della croce e traslavano il re, il Duce e i generali in figure eroiche, e proclamavano un’Italia che desiderava sì la pace, ma era pronta alla guerra. E, come detto, padre Reginaldo Giuliani divenne oggetto di poesie, inni e medaglie al valore, oltre che di libri e film. E, se vorrete avere la cortesia di controllare, scoprirete che non c’è nulla di quanto sto per riportare sulla sua pagina di Wikipedia (o almeno, non nel momento in cui scrivo).
Già cappellano durante la Grande Guerra, questo domenicano torinese aveva seguito D’Annunzio a Fiume, sconcertando persino i suoi confratelli col rito della benedizione del pugnale offerto al poeta da un gruppo di sue ammiratrici. Di radicate convinzioni fasciste, Giuliani si arruolò, quando aveva già 48 anni, come cappellano-centurione del battaglione delle camicie nere XXVIII Ottobre. Le finalità guerriere e teatrali che egli attribuiva alla propria missione in Africa lo portarono a esprimere in questi termini il significato della partenza: “Tra qualche giorno io parto per l’Africa e voi, o giovani, fatemi un solo augurio: che io possa morire tra le mie Camicie Nere. Questo è l’augurio più bello che mi possiate fare.” Come risulta dal suo diario d’Africa, pubblicato postumo dall’editore Salani col titolo Per Cristo e per la Patria, Giuliani mostrò un profondo disprezzo per il cristianesimo tewahedo, e volle partecipare direttamente alle irruzioni militari nelle chiese etiopiche. Il domenicano si inebriò della “mistica alleanza tra il crocifisso e la macchina bellica fascista”, esaltò nel suo diario “la musica dei cannoni e dell’artiglieria” che accompagnava l’avanzata delle truppe italiane, mentre non spese una parola sugli aspetti più brutali della conquista, come l’uso dei gas, le stragi dei civili e il bombardamento dei centri della Croce Rossa.
La morte tanto invocata lo raggiunse il 21 gennaio 1936 a Passo Urieu, in combattimento, e lo inserì d’autorità nella leggenda d’Africa, nel pantheon del fascismo e nella devozione cattolica come emblema di ardore patriottico e immolazione missionaria. Gli venne anche attribuita una medaglia d’oro alla memoria, con la seguente motivazione: “Di fronte all’incalzare del nemico alimentava con la parola e con l’esempio l’ardore delle camicie nere gridando: «Dobbiamo vincere, il Duce vuole così!» Chinato su di un caduto mentre ne assicurava l’anima a Dio, veniva gravemente ferito. Raccolte le sue ultime forze partecipava ancora con eroico ardimento all’azione per impedire al nemico di gettarsi sui moribondi, alto agitando un piccolo Crocifisso di legno. Un colpo di scimitarra da barbara mano vibrato troncava la sua serena esistenza chiudendo la vita di un Apostolo, dando inizio a quella di un Martire.” I legionari celebrarono la morte del domenicano in un inno di saluto alla vittoria, ma le virtù eroiche del caduto vennero decantate soprattutto nelle chiese, negli oratori, nei teatri e sulla stampa cattolica, trasformando così il cappellano della milizia nell’eroe crociato che incarnava le virtù cristiane e patriottiche del sacrificio e del coraggio.
Peraltro, se notate l’immagine che ho postato in alto, vedrete che qualcosa non coincide: l’etiope che sta per uccidere il santo martire fascista non impugna una scimitarra, ma una lancia che, come mi è stato fatto notare, è un’arma ancora più primitiva. Forse se nell’altra mano avesse stretto un cuore umano mezzo masticato sarebbe stato troppo, ma anche così il messaggio è più che chiaro, a noi come a coloro che all’epoca hanno visto quel disegno. Ma la sostanza resta che egli era andato laggiù per “spezzare le catene degli schiavi e preparare la via ai Missionari cattolici, che andranno a liberare milioni di anime dall’eresia monofisita e a ricondurle nell’ovile di Gesù Cristo nel seno della Chiesa cattolica”.
Faccio un ultimo appunto sulla Chiesa Copta Etiope (o Tewahedo), nemica giurata di Giuliani, e il suo rapporto col fascismo: essendo essa la religione ufficiale dell’impero prima della conquista, si pensò bene di perseguitarla, anche perché molti rivoltosi fedeli all’imperatore si stringevano attorno ai vescovi locali, e in generale la popolazione aveva in odio gli Italiani, preferendo spesso e volentieri i propri preti a quelli stranieri. Indi per cui il governo invasore, come denunciato poi da Hailè Selassiè, si diede all’uccisione dei religiosi dopo l’attentato a Graziani (i morti furono circa 2.000), bruciò i corpi dei caduti per impedirne i funerali, diede fuoco a importanti chiese (anche quella della capitale), trasferì il più antico e sacro monumento etiopico (l’obelisco di Axum) a Roma, e giustiziò in piazza il vescovo Pietro per il suo rifiuto di firmare l’atto di sottomissione all’Italia; e ancora fece cessare i rapporti della Chiesa Tewahedo sia con il Patriarcato di Alessandria, dalla quale dipendeva, sia con il Vaticano per il ristabilimento dell’unità, e anzi sovvenzionò la fazione musulmana del Paese. Il caso più eclatante resta comunque quello del monastero di Debra Libanos, distrutto per ordine di Graziani il 19 maggio 1937 (inclusa la sua imponente biblioteca), in quanto si riteneva potesse essere sede di rivoltosi: nel giro di tre giorni furono fucilati 297 monaci, 129 diaconi e 26 ragazzi, e visto il numero così imponente al generale incaricato servì adoperare le mitragliatrici. In tutto questo, la Santa Sede si prodigò unicamente per la liberazione di 31 etiopi cattolici deportati in Sardegna e Somalia, evitando così ogni fonte di attrito col governo: si voleva la loro liberazione non in quanto uomini, ma in quanto cattolici.

I SANTI IN ARMI
In una prospettiva tesa a enfatizzare le dimensioni confessionali dell’espansione coloniale va citato l’importante sforzo di padre Agostino Gemelli, rettore della Cattolica di Milano, per consacrare le forze armate italiane al Sacro Cuore di Gesù. Nel 1936 fece stampare e distribuì mezzo milione di copie del suo Soldato, Prega!, che conteneva l’atto di consacrazione al Sacro Cuore, il Vangelo di Luca e alcune preghiere per i soldati; tutto questo gli procurò screzi con monsignor Bartolomasi, capo dell’Ordinariato Militare, ma alla fine Pio XI appoggiò l’infervorato francescano, e l’esercito venne consacrato nel giugno 1936 con solenne cerimonia, alla quale parteciparono l’episcopato, gli organismi di Azione Cattolica e i cappellani militari. Come spiegato nella rivista dell’Opera della Regalità dello stesso Gemelli, l’atto rappresentava “la testimonianza di una parziale, ma non meno reale, diffusione planetaria del regno sociale di Cristo che si realizzava attraverso l’espansione africana del fascismo.”
I soldati avevano sempre più incrementato la devozione personale alla Madonna, al Sacro Cuore e ai santi più disparati, portandosi in battaglia un numero spropositato di immaginette e oggetti devozionali; a partire per l’Africa Orientale non furono però soltanto migliaia di santini e medagliette destinati ai soldati, ma anche decine di immagini e statue della Madonna, il cui imbarco era accompagnato, oltre che da benedizioni ecclesiastiche, dagli onori delle autorità militari e civili. Scriveva Salvemini che, il 3 marzo 1936, un’immagine della Madonna di Pompei fu “posta su un carro, e partì per Napoli, preceduta da veterani, ex soldati invalidi, madri e vedove dei caduti nella Grande Guerra, autorità politiche e clero. Sopra l’interminabile processione volavano sciami di aeroplani gettando fiori e manifestini esaltanti la Vergine e la vittoria delle forze armate italiane.” La spettacolarizzazione della devozione assunse una spiccata valenza simbolica unendo missionarismo, culto popolare, timore della morte e ideologia fascista, tanto che alcune immagini venivano poste alla testa delle legioni in marcia per conferire un’aura di invincibilità al corpo di spedizione, facendo risultare la pietà mariana pervasa da aggressive intonazioni militari.
Molte altre statue di Madonne vennero inviate nel Corno d’Africa, poiché i soldati volevano sia venerarle per protezione, sia averle come simbolo che ricordasse loro la propria casa e i propositi che avevano fatto prima di partire. Ma ciò che prevaleva era pur sempre lo spirito della crociata contro “l’incivile e barbara Abissinia”, di cui le immagini dei santi diventavano il simbolo della guerra; scrive Violi: “Nella devozione dei figli d’Italia alla Vergine si vuole rinsaldare la fede di una nazione, sia nel senso della Madonna dell’Arco, che veglia per una piccola comunità, sia nel caso dell’immagine della Madonna di Pompei in partenza per l’Africa Orientale, che, come Regina delle Vittorie, accompagna i combattenti e infonde nei loro animi la forza di battersi per la civiltà cristiana.”
Tutto questo ovviamente non dovrebbe stupire: anzi, in genere non si hanno problemi ad accettare che un popolo in guerra si porti dietro delle immagini religiose, perché gli dèi e i santi hanno sempre accompagnato gli eserciti nelle loro campagne. Ma con le imprese fasciste esiste, a mio parere, una differenza importante, ovvero che non si trattava di una guerra di difesa, né della riconquista di un territorio patrio perduto: la campagna d’Etiopia era una guerra di conquista pura e semplice, laddove gli Italiani erano arrivati e, usando un pretesto qualunque (Ual Ual), avevano iniziato a penetrare in un territorio straniero, senza alcuno scopo se non un presunto prestigio internazionale che esisteva solo nella testa del Duce. Ma ovviamente le reali motivazioni non importavano e, come gli USA di oggi, si andava a Oriente a portare la civiltà, e dunque, come scrisse un vescovo di Cremona in un inno a Dio, “a te affidiamo in questa ora di tenebre la Patria nostra, la tua Italia, che combatte laggiù per una causa giusta e santa.”

SPIE MISSIONARIE
Fin dal 1922, in Etiopia i missionari cattolici (soprattutto le suore della Consolata) avevano aperto scuole, orfanotrofi, ospedali, lebbrosari e seminari, sostenuti dal ras Tafari, poi divenuto imperatore; dopo i Patti Lateranensi, comunque, ci fu un avvicinamento dei fascisti ai missionari, con conseguente cambio di direzione politica (nel 1930 De Bono arrivò a garantire finanziamenti per le missioni se il clero locale si fosse prodigato in un maggiore proselitismo, e avesse dato un’istruzione italiana ai giovani etiopi, di modo da rendere più facile la conquista prevista); quando il ministero delle colonie chiese a monsignor Barlassina di spronare i missionari a causare qualche tafferuglio per avere un casus belli, nel maggio 1935, questi accettò di buon grado, nonostante le proteste del prefetto apostolico Santa. Più in generale, la missione della Consolata divenne non solo un centro di reclutamento di cappellani militari, ma anche una base per recuperare informazioni riguardo il territorio, le malattie e la natura delle gente del posto. Due mesi dopo l’invasione, il governo etiopico decretò l’espulsione dei religiosi italiani dal Paese.
Dopo il fatto, molte riviste cattoliche italiane si prodigarono in una sistematica denigrazione del cristianesimo tewahedo, preannunciando la sua giusta epurazione. Una volta terminato il conflitto, i missionari italiani (anche valdesi) vennero reintegrati, mentre il governo espelleva quelli protestanti degli altri Paesi. Se, come plausibile, i missionari ebbero da ridire sugli eccidi compiuti da Graziani, ciò non ci è pervenuto, in quanto la loro corrispondenza venne sempre censurata (costringendoli spesso a usare cifrari). Impresa degna di nota fu quella del cappellano militare Mario Borello che, scampato al massacro del suo battaglione nel giugno 1936, aveva trovato rifugio presso la tribù dei Galla i quali, favorevoli al governo straniero in quanto intendevano impadronirsi dell’area, gli diedero ogni informazione necessaria per stanare le tribù non ancora sottomesse agli Italiani; l’operazione spionistica di Borello ebbe successo, e si concluse con la fucilazione del vescovo locale.
Ben presto la missione della Consolata venne espansa grazie ai finanziamenti del governo, venne eretto il vicariato di Addis Abeba, e giunsero in Etiopia molti nuovi missionari; il vero problema, per la Santa Sede, fu l’espulsione di quelli stranieri, che non mancò di inimicare il Regno Unito e la Francia al Vaticano, poiché esse avevano sempre rispettato i missionari italiani nelle proprie colonie, indipendentemente dalla loro nazionalità. Dal canto suo, esiliato a Bath, Hailé Selassié chiese aiuto al Vaticano per fare da intermediario col governo italiano: inizialmente chiese sostegno economico per la sua famiglia in cambio dell’abdicazione, ma poi mutò linea politica e denunciò pubblicamente le atrocità commesse dagli Italiani in Etiopia, come abbiamo visto; nessuno sembrò però prestare ascolto al suo appello, almeno finché il Regno Unito non entrò in guerra con l’Italia: nel 1942, a capo di un esercito, l’imperatore marciò nella sua patria e col sostegno britannico sconfisse gli invasori, tra l’altro catturando e deportando i missionari cattolici in campi di prigionia, dai quali vennero liberati solo l’anno dopo.

“UOMINI DEL LORO TEMPO”
Mi rendo conto di una cosa: si può obiettare a tutto questo con frasi abbastanza scontate come “erano uomini del loro tempo, e non ragionavano come noi”, oppure “tutti hanno sempre fatto così, non c’è nulla di nuovo”. Eppure questa volta la cosa non funziona così bene.
Le persone di cui stiamo parlando sono lontane nel tempo rispetto a noi, ma non così tanto, e questo è un distinguo importante: non si parla qui di uomini usciti dal Medioevo o dalla Guerra dei Trent’Anni, ma di persone che (in alcuni casi) sono ancora vive e si ricordano quell’epoca. Non sono passati eoni, e in realtà non è passato nemmeno un secolo: soprattutto, non è passato abbastanza tempo perché il cattolicesimo italiano possa fingere di non aver mai giustificato tutte queste cose a livello dottrinale. Ho anche nozione di alcuni preti anziani che, oggigiorno, si propongono di benedire i fucili per sparare agli immigrati.
A Mussolini il papa come anche il resto del mondo dissero che stava facendo una solenne cazzata, ma lui ha deciso di proseguire per la sua strada. E ancora oggi di queste sue manie di compensazione, per le colonie come per tutto il resto, ne stiamo pagando il prezzo.
Quindi non è vero che erano “uomini del loro tempo”: se ci mettiamo a giustificare tutto in questo modo, allora si potrebbe arrivare anche a giustificare l’operato di Giuliani e la filosofia di Schuster, si potrebbe arrivare a dire che andava bene se la Madonna veniva fatta avanzare in testa alle truppe di conquista, e quanto mancherebbe perché si arrivi ad affermare che, in fondo, il fascismo come il nazismo e lo stalinismo erano “dottrine del loro tempo”, e quindi giustificare il loro operato perché “così va il mondo”?
Poco, a mio avviso. Molto poco.
Ed è un problema.

mercoledì 14 settembre 2016

I Re Magi a Milano



La cappella dei Re Magi in Sant'Eustorgio a Milano.


Narra la leggenda che nel IV secolo, alla morte del vescovo Protaso, il governatore greco Eustorgio venne eletto dal popolo come suo successore, poiché stimato come uomo colto, nobile e pio; recatosi nella capitale d’Oriente per convalidare la nomina, ricevette in dono da Costantino II (o da Costanzo II) i corpi dei re magi, che sua nonna, sant’Elena, aveva recuperato in Terrasanta e posto in Santa Sofia. Una versione alternativa, riportata da Giovanni di Hildesheim nel 1364, afferma invece che le reliquie vennero recuperate dalle truppe milanesi durante le guerre di Maurizio in Oriente (582-591), e che Eustorgio si fece carico di richiederle al suo successore Manuele I (1143-1180) dopo essere stato eletto vescovo. Come che sia, il grande sarcofago venne caricato su una nave, sbarcato sulle coste tirreniche e da lì proseguì il tragitto su un carro trainato da buoi. Durante il viaggio il carro venne assalito dai lupi, che uccisero la bestia di sinistra: il santo allora ammansì una delle belve e la aggiogò al mezzo; va ricordato che, assieme ai corpi dei magi, egli avrebbe trasportato anche quello di san Giacomo, che venne poi lasciato a Zibido. Arrivato infine in vista della capitale d’Occidente, il carro si fermò (secondo alcune versioni in maniera miracolosa, secondo altre perché impantanato, secondo altre ancora per la morte degli animali): il vescovo prese il fatto come un segno, e fece edificare una chiesa laddove il sarcofago si era fermato, facendosi poi seppellire nella stessa alla sua morte. Tradizione vuole che il luogo sia lo stesso dove san Barnaba abbia battezzato i primi cristiani milanesi usando l’acqua di una fonte miracolosa (restaurata da Federico Borromeo nel 1628): per tale ragione ancora oggi è consuetudine che gli arcivescovi, alla loro consacrazione, entrino in città dalla Porta Ticinese, dopo aver pregato in Sant’Eustorgio. Il viaggio delle reliquie è rievocato su un vecchio capitello nella navata destra della chiesa.
Questa leggenda è probabilmente nata dopo il furto delle reliquie in questione, nel XII secolo: secondo la testimonianza di Guglielmo di Newburgh (post 1198), quando l’imperatore Federico I iniziò il suo assedio, nel 1158, i Milanesi rasero al suolo essi stessi un sobborgo della città e trovarono nel sotterraneo di “un antico e nobile monastero” alcune reliquie di santi che furono trasferite all’interno della città e, in particolare, tre corpi ottimamente conservati. Scrive infatti: “Posto un tempo nella parte più segreta della chiesa, il tesoro era sconosciuto agli stessi monaci e ai preti che vi officiavano […] ma non si sa da chi furono deposte le reliquie là dove si trovavano.”; i corpi erano stati conservati con un balsamo “del quale si pensa fossero stati impregnati dopo la morte (secondo la consuetudine della nazioni pagane). Quando vennero ritrovati, i corpi, a quanto si dice, erano circondati da un cerchio d’oro che li legava insieme.” (l’idea che si trattasse dei magi sarebbe venuta da qui). Nel XIII secolo Galvano Fiamma ci informa inoltre che, in quel frangente, i Milanesi nascosero i corpi in un vano alla base del campanile dell’intramuraria chiesa di San Giorgio al Palazzo (una tavola di marmo sostenuta da quattro colonnette, senza alcuna titolazione), dando alle spoglie i nomi fittizzi dei martiri Dionigi, Rustico ed Eleuterio (secondo Goffredo da Bussero, che scriveva sul finire dello stesso secolo, questi erano invece proprio i nomi che il popolo davano ai tre magi, in quanto Eustorgio “fecit basilicam ad honorem ss. Regum, vice quorum nominum in Letaniis interpellantur ss. Dionixius, Rusticus, Eleuterius, pro quibus Gaspar, Baldezar, et Melchior”); in questo frangente, riporta poi Robert de Thorigny (ante 1186) “i loro corpi, all’esterno, parevano intatti anche per quanto riguardava la pelle e i capelli. Secondo quanto mi ha riferito qualcuno che affermava di averli visti, il primo di loro, per quanto si poteva dedurre dal suo aspetto complessivo e dai capelli, sembrava avere una quindicina d’anni, il secondo una trentina e il terzo una sessantina.” Come che sia, Newburgh continua dicendo che, dopo la resa di Milano nel 1162, “l’imperatore vittorioso distrusse la città e non massacrò i cittadini, dato che si erano arresi, ma li disperse e trasferì nell’Impero Germanico le famose reliquie dei magi, tenute nascoste fino a quel momento (i Lombardi ebbero delle difficoltà ad accettare ciò) e designò la città di Colonia come custode del tesoro.” A scovare i resti in questione fu il cancelliere imperiale Rainaldo di Dassel, appunto arcivescovo di Colonia, che li fece deporre nella sua cattedrale il 23 luglio 1164. Da allora in molti si prodigarono per riavere quelle spoglie: Ludovico il Moro, Alessandro VI, Carlo Borromeo e Alfonso Litta, e tuttavia fu solo nel 1903 che il cardinale Andrea Ferrari riuscì a riavere dal suo collega tedesco due fibule, una tibia e una vertebra. Una leggenda (probabilmente moderna) vorrebbe comunque che i Milanesi siano riusciti a sostituire le salme dei santi con dei falsi, e che dunque quelle originali siano nascostamente sepolte da qualche parte.
Pare significativo che le prime leggende riguardanti i magi in città compaiano in un anonimo scritto del XV secolo, citato da Bonino Mombrizio. In un discorso prettamente storico, al di là dell’incongruenze delle date tra la storia milanese e quella bizantina, si obietta soprattutto che non abbiamo nozione del culto dei magi a Costantinopoli, e che sul finire del IV secolo Ambrogio non ha mai citato le loro reliquie nei suoi scritti. Gli studiosi hanno allora optato per identificare il protagonista della leggenda con san Senatore (472-475), con Eustorgio II (512-518), con il leggendario sant’Arsacio (discepolo di Ambrogio o fratello di Eustorgio I), o ancora proponendo che le salme fossero state portate in città dopo la Prima Crociata (1096-1099). Come fece poi notare Giuseppe Allegranza, il ritrovamento delle reliquie potrebbe essere datato ante quem grazie alla moneta di Zenone a loro connessa (che vedremo a breve), indicando così che le salme risalirebbero a un periodo compreso tra il 474 e il 491 (nulla però ci conferma che essa sia stata ritrovata nel sarcofago, peraltro di chiara origine romana e proveniente, con ogni probabilità, dalla necropoli sulla quale la chiesa venne fondata).
Nella Cappella dei Magi si può ancora oggi ammirare questo enorme sarcofago di pietra ad acroteri, sul cui coperchio venne incisa, nel XVIII secolo, la scritta “Sepulcrum Trium Magorum” (trasformato in “Trì Lumagòn” nella dicitura popolare), assieme a una stella cometa a otto punte; un’altra stella di questo genere svetta poi sulla cima del campanile (il più alto di Milano, dopo quello di San Carlo al Corso, e sul quale, nel 1306, venne posto il primo orologio cittadino). Attualmente le reliquie restituite sono conservate entro un piccolo scrigno posto in una nicchia sopra l’altare, protetto da uno sportello in rame sbalzato e decorato con simboli liturgici, opera di Nicola Sebastio; al di sotto di esso vi è una lunga ancona di marmo rappresentante la storia dei magi (visita a Erode, adorazione del Bambino e avviso dell’angelo, con la scritta latina “Tabula Scole Beatorum Trium Regum Magorum facta in onorem Domini Nostri Yesu XPI et pie Virginis Marie et ipsorum regum MCCCXLVII.”), dedicata da Lodrisio Visconti appunto nel 1347, il quale già fece restaurare la cappella nel 1308. Ulteriori restauri avvennero nel 1401, per volere di Gian Galeazzo (il nuovo altare venne consacrato il 6 marzo dal domenicano Ambrogio da Abbiate), e nel 1405, a opera di Giovanni Maria. Abbiamo comunque anche testimonianza di istituzioni legate al culto dei magi: la prima è la già citata scuola di confratelli, mentre l’altra è l’Ordine dei Santi Re Magi, di cui possiamo ancora ammirare una lastra tombale esposta nella cappella, recante l’immagine della stella a otto punte.
La devozione popolare nei confronti dei magi è sempre stata forte a Milano: già anticamente le loro ossa erano considerate miracolose contro l’epilessia e i sortilegi, e il rito ambrosiano prevede l’uso del rosso durante l’Epifania, in ricordo del loro martirio. Si sa poi che sotto Azzone Visconti, il 6 gennaio 1336, si ebbe la prima festa in loro onore, che si ripeté da allora ogni anno: sempre dal Fiamma sappiamo che tre sacerdoti erano soliti portare in processione i sacri resti da Sant’Eustorgio al Duomo, e viceversa; il popolino celebrava l’evento con una rappresentazione in costume che dalla cattedrale muoveva verso la basilica extramuraria: precedeva il corteo un vessillifero con un complicato aggeggio rappresentante la stella, seguito da un vecchio, un giovane e un uomo col viso dipinto di nero, a cavallo e vestiti da re magi, e poi da facchini in abiti romani, cavalieri e svariati animali esotici (in particolare scimmie). Alle Colonne di San Lorenzo, seduto nell’intercolumnio, stava re Erode coi suoi scudieri, pronto a fermare il corteo, e sul posto si svolgeva spesso una zuffa (non sempre fittizia); la processione si concludeva davanti al presepio nella Cappella dei Magi in Sant’Eustorgio, dove il sacrestano faceva gli onori di casa, mascherato da san Giuseppe (la tradizione del corteo venne abolita da Carlo Borromeo, per poi essere ripresa a partire dal 1962). Sempre durante l’Epifania veniva esposta sull’altare della cappella, in assenza delle reliquie, il cosiddetto “Ducato dei Tre Magi”, una medaglia forgiata con l’oro portato in dono al Bambino (in realtà una moneta raffigurante l’imperatore Zenone, fatta poi rifondere nel XVIII secolo per volere dell’Allegranza con le immagini dei magi e il monogramma cristico, e purtroppo oggi perduta); parte dell’incenso sarebbe invece conservato nella chiesa di San Giovanni Battista a Busto Arsizio.
E, per l’appunto, non è solo la chiesa di Sant’Eustorgio a possedere parte delle reliquie: oltre alla già citata basilica bustocca, quella milanese di San Marco avrebbe infatti alcuni frammenti di ossa, donate dai Gesuiti di Brera nel XIX secolo; possederebbe altri frammenti la chiesa di Viggiù (dice infatti Francesco Bombognini che, “caduta la chiesa di s. Elia, che fu poi ristorata ed abbellita dal parroco Sormani, si trovarono sotto le rovine dell’altare insigni reliquie de’ ss. Re Magi, fatte poi rinchiudere dal cardinal Federico Borromeo in un reliquiere d’argento), e anche quella di Brugherio. In quest’ultimo caso, si tratterebbe di tre pezzi di mignolo, in precedenza conservati nella pietra santa dell’altare del monastero benedettino di Carugate, che vennero poi spostati all’inizio del XVII secolo (la leggenda vuole che siano stati donati da sant’Ambrogio alla sorella santa Marcellina, che risiedeva appunto a Brugherio, poi trasferite a Carugate da Carlo Borromeo). Infine, occorre citare la chiesa dei Santi Re Magi a Crescenzago: già attestata nel XII secolo, essa non conserva reliquie di sorta, e fu dedicata ai magi solo a cavallo tra XVII e XVIII secolo a opera delle domenicane di Santa Maria della Vettabbia (in precedenza lo fu alla Madonna e in seguito alla Natività di Maria); sconsacrata alla fine del Settecento, tornò in attività nel 1967. 
Altri luoghi conservano parte delle reliquie, che ottennero durante il trasferimento delle stesse da Milano a Colonia: Torino in Italia, Valence, Vienne, Salins, Besançon, Brisach e Strasburgo in Francia, e Magonza in Germania. Sul Monte Athos, in Grecia, sono invece conservati i doni dei magi: ventotto piccole foglie d’oro, e una settantina di sfere d’incenso e mirra grandi quanto un’oliva (si dice che queste reliquie siano in grado di curare dalle possessioni).