lunedì 25 luglio 2016

I marchesi Fagnani

La lastra commemorativa per il marchese Federico III Fagnani nella chiesa parrocchiale di Gerenzano.


FEDERICO (I) FAGNANI (19 novembre 1633 - 6 agosto 1693), capitano di fanteria (1654), signore di Robecchetto (investito il 20 luglio 1690 dal notaio Giuseppe Benaglio per 55 lire per fuoco, poi corretto in 47, e 100 ogni 3 lire di reddito feudale) e primo marchese di Gerenzano (1691) grazie a un diploma di Carlo II, ove veniva confermato nel possesso del feudo appoggiato al titolo marchionale, trasmissibile ai figli primogeniti maschi (A. Banfi giustifica la cosa col fatto che la famiglia “fu illustre nel campo della storia, delle arti e delle lettere, e non meno benemerita nelle opere di pietà e carità, e incontrò lodi e plausi unanimi”). Si sposò nel 1675 con Clara Clerici (13 ottobre 1653 - 9 gennaio 1734), figlia di Carlo Clerici, senatore e marchese di Cavenago, e di Eufemia Bonetti, figlia del senatore Giovanni Battista Bonetti. Ebbero 9 figli.
1. Margherita (28 giugno 1676 - 13 luglio 1684).
2. Maria Anna Francesca (7 maggio 1677 - 17 agosto 1677).
3. Gerolama (7 agosto 1678).
4. Giacomo (vedi sotto).
5. Carlo Antonio (21 ottobre 1681 - prima del 1693).
6. Ippolita Teresa (8 ottobre 1682 - 23 marzo 1754), sorella del monastero di San Lazzaro col nome di Chiara Margherita.
7. Muzio Giuseppe (17 ottobre 1683 - 24 settembre 1693).
8. Teresa Maria Rosa (15 gennaio 1685 - prima del 1701).
9. Maria Antonia (13 luglio 1687 - 1 febbraio 1749), sorella del monastero di San Lazzaro col nome di Chiara Marianna.

GIACOMO (I) FAGNANI (2 novembre 1680 - 6 maggio 1755), secondo marchese di Gerenzano (1693), membro dei LX decurioni, giudice delle strade, membro dei XII di provvisione, conservatore del patrimonio e magistrato milanese (il suo stemma, un’aquila argentata in campo azzurro, si trova ancora oggi in un’affresco al piano superiore del Palazzo della Ragione). Si sposò (15 ottobre 1701) con Marianna Stampa (19 novembre 1683 - 15 gennaio 1756), figlia di Cristierno Stampa, conte di Montecastello, e di Giustina Borromeo dei conti di Arona. Ebbero 8 figli.
1. Federico (vedi sotto).
2. Cristierno (9 marzo 1704 - 13 giugno 1751), si dice fosse zoppo.
3. Ambrogio (27 gennaio 1706 - 28 ottobre 1775), marchese e arciprete del Duomo di Milano (1743-1775), laureatosi alla Pontificia Accademia Ecclesiastica di Roma nel 1728, lasciò parte dei suoi beni all’Ospedale Maggiore di Milano.
4. Maria Giustina (9 novembre 1707 - † ?).
5. Giovanni Battista (10 agosto 1709 - 11 ottobre 1710).
6. figlia (27 settembre 1710).
7. Carlo Maria (5 settembre 1711 - 20 ottobre 1716).
8. Clara (7 febbraio 1714 - 29 aprile 1784). Si sposò a Robecchetto (1 ottobre 1731 o 17 novembre 1731, con dote) con Giovanni Alimento Della Porta Modignani (1690 - 23 gennaio 1762), marchese di Ghemme (1727), decurione di Novara, figlio del conte Ardicino Della Porta e di Ippolita Modignani.
Oltre che alle tradizionali proprietà di Robecchetto (ove possedeva un aratorio vitato con moroni di 143 pertiche) e Gerenzano, stando a un documento del 1722 del Catasto Teresiano, il marchese possedeva anche 79 (poi 100) pertiche di terreno coltivato a vite e 294 a cereali, oltre che a 3 edifici (per un valore di 277 scudi) presso la Cascina Fagnana (oggi frazione di Turate). Sempre a Robecchetto, è testimoniato che contribuisse alle spese per la chiesa di Santa Maria della Purificazione, sovvenzionata dal popolo.
Merita una citazione la “vicenda della lapide sepolcrale”, avvenuta nel suddetto paese. La famiglia Lampugnani, per quanto proprietaria di gran parte di Robecchetto nel XVIII secolo, non volle radicarsi nel paese e nel cuore degli abitanti: nel 1736 Francesco Lampugnani, per quanto gravemente malato, giunse in villeggiatura a Robecchetto, convinto che la salubre aria del paese gli sarebbe stata di grande giovamento. Nel settembre, invece, morì e fu sepolto in Santa Maria della Purificazione. I tre figli, Giovanni Domenico, Antonio e Giuseppe, decisero di dedicargli una bella lapide sepolcrale, con tanto di stemma gentilizio. Il giorno 28 ottobre, col maestro da muro, si recarono in chiesa nonostante il divieto del parroco e della Confraternita del Santissimo Sacramento, responsabili della gestione e del mantenimento del luogo.
I Lampugnani nulla davano alla chiesa, per cui erano malvisti dai paesani che si opposero alla messa in opera della lapide. Sconfitti ma non domi, si rintanarono nel proprio palazzotto, portando con sé il manufatto, ma poi incaricarono il marchese Corio, avvocato, perché difendesse la loro causa e coinvolsero nella vicenda il marchese Giacomo Fagnani. Dai documenti riguardanti la controversia, appare chiaro che fra le due famiglie, che stavano su diversi gradini della scala sociale, non vi erano rapporti: il Fagnani neppure sapeva dove fosse “Casa Lampugnani” a Milano. Pur essendo impegnato negli sponsali del figlio Federico, promise di risolvere la vertenza, usando il suo potere, prima che la sposa giungesse a Robecchetto. La controversia durò a lungo, ma alla fine la popolazione dovette cedere e permettere la posa della lapide.
Il marchese viene citato anche in un atto plebano del 1747 riguardante la chiesa di San Giacomo in Gerenzano, ove si riferisce che continuava a sovvenzionare le messe predisposte dal suo omonimo antenato, committente della chiesa: “Ill.mus Dominus Marchio D. Jacobus Fagnanus curat dictae Missae celebrationem per Rev. Presbyterum Honoratum Oragum, eam erogando elemosynam, quae huic Missae quotidianae correspondet.”

FEDERICO (II) FAGNANI (Milano?, 14 ottobre 1702 - Robecchetto?, 18 maggio 1782), terzo marchese di Gerenzano (1755), ciambellano, membro dei XII di provvisione, membro dei LX decurioni e conservatore del patrimonio. Si sposò  (21 ottobre 1737) con Rosa Clerici (15 aprile 1722 - 29 luglio 1807), figlia di Giorgio II Clerici, marchese di Cavenago, presidente del Senato, uomo potentissimo e molto ricco, proprietario di numerose ville e palazzi, e di Barbara dei conti Barbavara. Ebbero 3 figli.
1. Marianna (3 luglio 1739 - 15 gennaio 1814). Si sposò (20 ottobre 1755, con dote) con Francesco Antonio Visconti Pirovano (27 luglio 1729 - 19 luglio 1792), primo marchese di Vimodrone (1778), figlio di Carlo Pirovano e di Laura Seccoborella dei conti di Vimercate.
2. Giacomo (vedi sotto).
3. Giorgio (dicembre 1741 - 2 ottobre 1742).
Le fonti ci tramandano Federico e Rosa come persone dal carattere austero e aspro, molto consce della propria nobiltà e dignità, nonché del proprio potere (d’altra parte, i Fagnani erano tra le maggiori famiglie milanesi per nobiltà e censo); in particolare descrivono la marchesa Clerici come donna di aspro carattere, chiusa e austera: in un documento conservato presso l’archivio parrocchiale di Robecchetto viene immortalata mentre passeggia sotto il portico della sua villa nel periodo della villeggiatura, altera ed inaccessibile per i suoi contadini. Sempre nell’archivio in questione sono conservati molti documenti che menzionano il marchese Federico, spesso in lite con l’allora parroco del paese, Giovanni Battista Ferrario. Pare che il marchese fosse molto presente nella vita del paese e che avesse una sorta di giuspatronato sulla chiesa parrocchiale; sicuramente era priore della locale Confraternita del Santissimo Sacramento.
Delle questioni fra il marchese Federico e don Ferrario venne investito persino l’imperatore Giuseppe II, al quale il prete consegnò tutti i suoi ricorsi perchè venissero giudicati a Vienna. Proprio alla penna del sacerdote dobbiamo il ricordo di alcuni fatti che videro protagonisti il marchese. Nell’ottobre del 1765, dopo che il Ferrario ebbe rimandato a mani vuote la “cappa nera” (un cameriere di particolare fiducia) del marchese, che, secondo gli ordini ricevuti dal padrone, gli chiedeva la consegna delle cassette per l’elemosina alla chiesa, il Fagnani, che considerava don Ferrario “torbido ed inquieto, che aveva il solo scopo di romperla col suo feudatario” (testuali parole del nobile, che riteneva altresì che le cassette dell’elemosina dovessero essere gestite dalla Scuola), decise di procedere all’inventario delle suppellettili del sacro luogo (evidentemente aveva dei dubbi sulla “gestione” del sacerdote).
Quando il prete si asserragliò in chiesa, suonando a distesa le campane, il marchese - a dire del Ferrario - perse le staffe, insultò il parroco, gli diede del birbante e disse che l’avrebbe fatto bastonare. Gridava il marchese: “Dal duca, dal duca di Modena voglio andare e farti cacciare via da Robecchetto!”; gli rispondeva il parroco: “E io andrò a Vienna dalla regina d’Ungheria!”; nel frattempo il nobile Lampugnani, che accompagnava il marchese, cercava di picchiare il sacerdote con il bastone della croce dei funerali. Don Ferrario si rivolse al Tribunale Civile contro l’asserita violazione dei suoi diritti, ma venne arrestato. Non si conoscono ulteriori sviluppi della vicenda, ma una lettera inviata dal marchese pochi mesi prima della sua morte ci fa intravedere un don Ferrario gentile e ossequioso nei confronti del feudatario. Un parroco, suo successore, scrive: “... lui [don Ferrario] che tanto aveva lottato e sofferto per le angherie ed i soprusi dei signori feudatari, non aveva avuto la consolazione [...] di far riposare le sue stanche ossa presso San Vittore.”
Il marchese Federico partecipò probabilmente anche all’opera di bonifica e rimboschimento dei territori del Bozzente (assieme ad altri nobili quali Borromeo, Castelbarco e Villani), in seguito alla “grande piena accaduta nell’anno 1756, quando il Bozzente, accresciuto dal torrente Gardaluso e dal torrente di Tradate, interamente introdottovi contro ogni equità, dopo il taglio dei loro medesimi argini, portò quasi l’eccidio delle Comunità di Cislago, di Gerenzano, d’Uboldo, d’Origgio e di Rho, con quella lacrimevole inondazione accorsa nel primo luglio, quale atterrò case, disertò immense campagne, affogò armenti e diede la morte a molti abitatori.”

GIACOMO (II) FAGNANI (Milano, 1 settembre 1740 - Milano?, 17 luglio 1785), quarto marchese di Gerenzano (1782) e primo impresario del Teatro alla Scala di Milano, dove i Fagnani avevano due balconate. Si sposò (14 gennaio 1767) con Costanza Brusati (6 dicembre 1747 - 24 gennaio 1805), figlia di Pietro Brusati, marchese di Settala, e di Antonia Solari. Ebbero 3 figli.
1.      Maria Emily “Mie Mie” (vedi sotto)
2.      Federico (vedi sotto)
3.      Antonia Barbara Giulia Angiola Faustina Lucia (vedi sotto)
Giacomo, giovane dalla natura impetuosa e leggera, si fece conoscere da tutta Milano nel 1763 quando, all’età di 23 anni, cercò di sposare la cantante Caterina Gabrielli (che allora si esibiva al Teatro Regio Ducale) e fu per questo incarcerato, come racconta la Cronaca di Cola de li Piccirilli (personaggio fittizzio dietro al quale si nasconde probabilmente Pietro Verri): Lo jorno vente de Marzo lo Marchese Fagnani fu condotto in Castello da lo Si Capetano de Justizia, peché se dicia che volisse sposare na cierta Cantarina Gabrieli, peché è verissimo che lo matrimonio è libero et che le Teologi scommunicano chi decesse lo contrario, ma chi avenno Padre volisse ascoltar la Teologia su chisso ponto saria posto in carcere in prova de libertà, come apponto avinne de lo Marchese Fagnani, che ve fue pe’ quaranta nove giorni sino allo diece de lo mese de Majo, et chisso pure se dimenticaria se io Cola de li Picirilli non lo avisse scritto de mia mano et pe’ mio devertimiento. Sicuramente la prigionia gli fece sbollire gli ardori per la famosa cantante; parimenti Caterina venne allontanata da Milano per la sua tresca amorosa col marchesino.
All’età di un anno, Costanza Brusati perse il padre; la madre quindi si risposò col conte Barton, comandante del Castello di Milano. Diventata adulta, ebbe successo come cantante e ballerina all’Opera Italiana; tuttavia, probabilmente per sfuggire alla gravità di un patrigno indesiderato, si sposò con Giacomo Fagnani.
I genitori di questo non erano contenti di vedere il figlio sposare una ragazza di stirpe troppo poco nobile rispetto alla loro. Non sentendosi a proprio agio con la nuova famiglia, i due presero a viaggiare di città in città. Passarono nella storia di Milano per essere due personaggi dissoluti ed eccentrici: appena sposati, nel 1767, intrapresero come di consueto il grand tour a Firenze, Roma e Napoli. Ritornati a Milano nel 1769, attirarono l’attenzione pubblica lui per la frenesia che mostrava nel dilapidare le cospicue fortune paterne come giocatore d’azzardo, lei per le sue civetterie e stravaganze nel vestire all’ultima moda, con acconciature monumentali (alcune pettinature si alzavano quasi di un metro e avevano alla sommità fiori, frutta e tortore svolazzanti, come nel caso del famoso puff di sentimento). Era un tale personaggio che Laurence Sterne la citò nel cap. XXXV del suo Viaggio Sentimentale (1768). Il marchese la lasciò poi temporaneamente per viaggiare in Corsica, ove conobbe Pasquale Paoli, famoso patriota corso.
Quando in Inghilterra Costanza ebbe una figlia adulterina dal loro comune amico, il conte di March, Giacomo, fingendo di non vedere il comportamento della moglie, dissipò la sua fortuna nel gioco d’azzardo; venne salvato proprio da costui, e infine adottò la bambina come figlia sua.
Fu probabilmente durante la vita del quarto marchese che si diffuse una storia particolare riguardante Palazzo Fagnani a Milano, attualmente in via Santa Maria Fulcorina. Un tempo tale costruzione aveva un grazioso e raccolto cortile, circondato da un ricco fogliame che creava una lunga e fresca muraglia, isolandolo completamente. “Qui si raccoglievano [...] alcuni patrizi, forse affiliati ad una accademia letteraria, a recitare madrigali, ad ascoltare musiche pastorali, e fors’anche a ballare minuetti nel prato. Immaginiamo una ventina di dame vestite da contadinelle e di cicisbei in costume di pastori: come dovevano sentirsi a disagio, in quelle rozze vesti, i galanti cavalieri avvezzi alla parrucca bianca, alle calze di seta, allo spadino! E c’è da giurare, invece, che le gentildonne saranno riuscite ad essere eleganti e graziose anche negli abiti rusticani...” (G. C. Bascapè, I Palazzi della Vecchia Milano) Inoltre ogni “arcade” portava con sé un agnello o una capretta abbellita e profumata con ornamenti e cocche. Passavano così ore e ore in piacevoli conversazioni, recitando poesie e melodrammi pastorali. Alcune volte il banchetto era preparato in giardino, su rustici tavoli ma con cibi molto raffinati o in graziose capanne che forse avranno nascosto qualche furtivo incontro d’amore e qualche dolce promessa.
Giacomo Fagnani assunse nel gennaio 1776, con altri due gentiluomini, la gestione del ridotto dell’erigendo Teatro alla Scala, relativamente al gioco d’azzardo che vi si teneva; tuttavia, a causa della sua vita dissoluta, il marchese era divenuto cieco, pazzo e sifilitico: venne bandito il 1 giugno 1781 e si stabilì in una sua proprietà (probabilmente Gerenzano), anche se venne portato a Milano poco prima della morte, il 17 luglio 1785; c’è una sua ironica descrizione in un Avviso di Milano, una sorta di gazzettino del tempo: “Trovasi alla campagna il cieco mentecatto Fagnani. L’amorosa sua moglie vi si porta a visitarlo regolarmente una volta alla settimana in compagnia del professor antiprolifico [Pietro] Moscati. Vanno ambi vestiti a la Levite color carne con fasce celesti, cappelli e scarpe bianche, in un magnifico carrettino con livree e postiglioni che non volgonsi indietro, infine un equipaggio che tutta spira asiatica galanteria.” Durante questo periodo, infatti, la moglie Costanza dimostrò un “approccio comprensivo e devoto”. Dopo la scomparsa del marito, Costanza ebbe una serie di amanti (nessuno molto ricco), e infine morì a Misinto, il 24 gennaio 1805.

FEDERICO (III) FAGNANI (Milano, 8 novembre 1775 - Milano, 8 ottobre 1840)
Fu il quinto marchese di Gerenzano e Robecchetto (1785), dottore in legge (1794), tesoriere del Regno d’Italia (1805), conte del Regno d’Italia (1807), cavaliere della Corona di Ferro (1807), membro del Consiglio di Olona (1808), consigliere del Comune di Milano (1816-1840), devoto cavaliere dell’Ordine di Malta (1824) e membro onorario del Reale Istituto di Scienze, Lettere e Arti (1840).
Primogenito maschio di Giacomo II Fagnani e di Costanza Brusati, nacque a Milano l’8 novembre 1775. Studiò nel Collegio dei Nobili di Siena, laureandosi in Legge nel 1794: suo maestro fu il senese Angelo Maria dei conti d’Elci, grande bibliofilo, scrittore ed erudito, che trasmise al giovane l’amore per la cultura. Nella Milano napoleonica il marchese ricoprì varie e importanti cariche: nel 1805 fu ciambellano, poi consigliere di Stato, nel 1807 cavaliere della Corona Ferrea, istituito da Napoleone Bonaparte quale re d’Italia con il Terzo Statuto Costituzionale del 5 giugno del 1805 (al fine di assicurare con dei contrassegni d’onore una degna ricompensa ai servizi resi alla Corona tanto nella carriera delle armi, che in quella dell’amministrazione, della magistratura, delle lettere e delle arti), e infine, nel 1810, uditore del Consiglio di Stato.
Nel 1809 fu nominato dall’imperatore Napoleone conte del Regno dItalia; Flavio Fagnani, uno dei discendenti collaterali del marchese, possiede una lettera originale del suo avo, datata 11 novembre 1809 e indirizzata al Consigliere Segretario di Stato Antonio Strigelli, in cui il Fagnani lo ringrazia per lonorificenza ricevuta con decreto del 10 ottobre 1809, a firma dellimperatore Napoleone, e recapitatogli il 26 ottobre 1809 per ordine del Cancelliere Guardasigilli della Corona Francesco Melzi dEril, di cui riportiamo la trascrizione: Fagnani Conte/Sig.r Segretario/Sono sollecito di significarLe che mi è pervenuta alle mani il di Lei pregiatissimo foglio dato in Milano il giorno 26 Ottobre per il quale in esecuzione degli ordini di Sua Eccellenza il Cancelliere Guardasigilli della Corona mi partecipa come La Maestà del Re dItalia si è degnata nominarmi Conte del Regno, e nel tempo stesso minforma di ciò che io debba fare a tenore delle Sovrane disposizioni in tale circostanza./Nelladempiere questo mio preciso dovere mi reputo fortunato di trovare lopportunità di farLe conoscere i sentimenti della mia verace stima per la sua degna Persona./Parigi 11 novenbre 1809/ Federigo Fagnani (Ill. 3). La lettera, indirizzata allallora Segretario di Stato, è lunico autografo del Fagnani; il resto dellarchivio di famiglia, confluito in quello dei Clerici, è andato distrutto durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, che non risparmiarono il palazzo di Milano di corso Venezia, di proprietà della famiglia Arese.
L’anno successivo partì per la Russia degli zar, dove rimase circa 6 mesi, accompagnato dal suo servitore Angelo Cetti e alloggiando nell’albergo De Bordeau; scrisse un resoconto del suo viaggio, intitolandolo Lettere Scritte di Pietroburgo Correndo gli Anni 1810 e 1811 dal Marchese Federigo Fagnani. La prima edizione del libro venne pubblicata nel 1812, mentre la seconda, rivista e annotata nel 1815, venne preparata nella stamperia di Giovanni Bernardoni di Milano. Egli descrive San Pietroburgo dal punto di vista architettonico, le cautele che si praticano nella Russia per difendersi dal freddo, il bagno russo, i teatri e le conversazioni, l’ospedale dei dementi, i collegi di educazione, i luoghi pii, la zecca e la banca imperiale.
Da funzionario di Napoleone, il Fagnani fu un attento osservatore del sistema legislativo; egli considera i codici e le leggi di uno Stato il mezzo attraverso il quale è possibile misurare il grado di sviluppo civile e morale raggiunto dalla società (Il primo passo, che l’uomo fa verso il vivere civile, è l’aggregazione in società, e non vi è società senza patti, e senza convenzioni reciproche tra quelli che si ristringono a vivere insieme. Quindi è, che la prima norma per giudicare de’ progressi dello spirito umano, è lo stato della giurisprudenza.” [1]); ha una concezione del diritto ancora legata alle teorie di Hobbes, per cui l’origine del diritto è naturale e l’unico garante del bene dei cittadini è il sovrano.
Il nobile milanese riconosce nel libero arbitrio e nella magnanimità dello zar il miglior modo di governare i Russi; accenna inoltre all’arrivo di alcuni giureconsulti dalla Germania, chiamati da Alessandro I per “ammodernare” le leggi russe e il Codice civile (La Russia ha un Codice civile come ogni altra più colta nazione.” [2]). Il ruolo del Senato nella Russia di inizio Ottocento è marginale e le cose della pace e della guerra dipendono assolutamente dal libero arbitrio del Sovrano [3], che si avvale del parere consultivo del Consiglio di Stato, dove si discutono i più gravi affari concernenti specialmente l’amministrazione pubblica.” [4]
Sempre in questo libro, inoltre, l’autore predisse con sorprendente esattezza il disastroso esito della spedizione di Napoleone in Russia nel 1812: “Il vostro sovrano sconfiggerà i nostri eserciti [...] Costretti a retrocedere, noi daremo il guasto ai paesi che abbandoneremo e li trasformeremo in deserti. Le piogge autunnali convertono le strade in pantani [...] succedono da vicino le nevi ed i ghiacci che rendono poco meno che impossibile ogni militare intraprendimento.”
Il marchese era vicino ideologicamente alle posizioni degli Italici (formatosi a Milano dopo l’abdicazione di Napoleone), di cui faceva parte anche Federico Confalonieri, e che puntava all’indipendenza del Regno, affrancato dalla dominazione straniera e senza il principe Eugenio come sovrano. Le fonti scritte dell’epoca confermano tuttavia che non ci sia stato nessun coinvolgimento diretto del Fagnani nell’omicidio di Giuseppe Prina; il marchese risulta da più parti essere firmatario della richiesta di convocazione dei Collegi elettorali e vicino alle posizioni di Confalonieri, ma estraneo ai fatti di sangue del 20 aprile 1814.
Carlo Botta lo include comunque tra i partecipanti alla protesta davanti al Senato: “Era il venti aprile quando, essendo il senato raccolto nelle sua solita sede, una gran massa di gente, gridando a lui traeva: era il cielo nuvoloso e scuro, un’apparenza tranquilla spaventava gli spiriti tranquilli. I commossi non si ristavano. Eranvi ogni genere di uomini, plebe, popolo, nobili, operaj, benestanti, facoltosi. Notavansi principalmente fra l’accolta moltitudine Federigo Gonfalonieri, i due fratelli Cicogna, Iacopo Ciani, Federigo Fagnani, Benigno Bossi, i Conti Silva, Serbeloni, Durini e Castiglioni.” [5]
Non contrasse mai matrimonio, né sono noti i nomi di sue amate, se non quello di Angela Pietragrua. L’unico nota a riguardo, datata 26 dicembre 1814, si trova a margine di una copia in possesso di Stendhal dell’opera di Luigi Lanzi, Historia Pittorica dell’Italia, in cui lo scrittore francese lamenta di essere stato abbandonato dalla sua amante Angela per il marchese Fagnani: Quand je vois ma maîtresse prête à m’abandonner pour M. Fagnani parce qu’il est Marquis, parce qu’il a imprimé pour des raisons viles, ce qui me tue, c’est la mort de mes illusions les plus chères. La vie perd son prix à mes yeux. Voilà exactement ce qui m’arrivait le 26 décembre 1814.” [6]. Stendhal descrive inoltre la sorella minore di Federico, Antonietta (1778-1847), moglie di Marco Arese Lucini, nella Chartreuse (alla fine del V capitolo del 1. libro) come una delle donne più belle di Milano insieme all’amata Angelina.
Le Lettere di Pietroburgo, comunque, sono l’unico saggio a sfondo politico-sociale che il Fagnani abbia scritto: infatti, dopo il breve periodo politico che lo amareggiò, si dedicò totalmente alla conduzione delle sue aziende agricole e ai libri. Visse isolato nella sua villa di Gerenzano, continuando a raccogliere libri e scrivere saggi, per lo più trattati d’economia campestre o allevamento di bachi da seta (La Notizia della Bigattaia Padronale della Fagnana, Buon Governo dei Filugelli e delle Bigattaje, Osservazioni di Economia Campestre Fatte nello Stato di Milano), insieme alle Riflessioni Morali e Politiche Intorno ad Alcune Opinioni e Teorie dei Nostri Tempi (1822) e a una traduzione degli Epigrammi di Marziale (Epigrammi di M. Val. Marziale Volgarizzati in Rima e in Altrettanti Versi da Federico Fagnani, Milano, Bernardoni, 1827). I libri scritti in quegli anni (1816-1820), pur essendo trattati economici, sono la testimonianza della volontà dell’autore di continuare a perseguire la causa dell’unità d’Italia attraverso la scrittura, come i vari riferimenti e le metafore all’interno dei testi dimostrano.
Il marchese parla spesso di una “comune Patria”, l’Italia e, sorprendentemente, alla fine di uno dei suoi trattati, fa delle considerazioni di carattere politico e invoca il “bene dell’Italia”. Ha rispetto e considerazione dei suoi contadini, e si schiera contro il latifondo e la riduzione dei contadini a mera forza lavoro. Il marchese propone due metodi di coltivazione e allevamento in cui i contadini partecipano agli utili: uno in cui vige un sistema di assoluta comunione di danni e profitti tra i contadini e il padrone, che il Fagnani preferiva, l’altro basato sull’identificazione e la proprietà per ogni singolo contadino all’interno di una coltivazione comune. Nei suoi scritti si dichiara favorevole al conferimento di denaro ai contadini creditori; al momento della sua morte si è rivelato un possidente generoso con i suoi lavoratori, predisponendo nel testamento rendite vitalizie per i suoi contadini.
In Osservazioni di Economia Campestre del 1820 parla infatti della difficile condizione dei contadini: “I contadini costituiscono, a detta d’ogni uomo sensato, la classe più laboriosa, la meno proclive al vizio, e la più utile della società, eppure con singole contraddizioni e ributtante ingiustizia gente tanto benemerita e negletta, vilipesa, ed anco trattata con maggiore asprezza d’ogni altro ordine della società.” [7]
Il “bene dell’Italia” ancora si ritrova tra le pagine di Notizia della Bigattaja, che si conclude con una interessante riflessione di carattere politico-sociale, quasi un incoraggiamento alla lotta per l’indipendenza: Molti già non si reggono più co’ suggerimenti de’ loro ministri; e quasi emancipati da questa specie di servitù, vogliono vedere co’ propri occhi, pensare colla propria mente, e governarsi secondo la propria e non l’altrui volontà. Almeno potessimo dire in nostra discolpa, che noi segnendo, benché assai da lontano, le pedate dei Cincinnati, abbandoniamo i nostri campi e le cure domestiche, per pagare alla patria il debito più sacro de’ nostri servigi, sia nelle cose della milizia, sia nell’esercizio de’ pubblici uffici.” [8]
Il marchese tornò a ricoprire un incarico politico solo nel 1831, allorché divenne segretario particolare di Franz Josef, conte di Saurau, ambasciatore austriaco a Firenze presso la corte di Toscana, una sorta di protettorato degli Asburgo.
Don Federico morì il mattino dell’8 ottobre 1840; queste furono le sue disposizioni per il funerale: Proibisco qualunque specie di pompa funeraria in Chiesa sia fora di Chiesa sia in Milano come in qualunque altro luogo. Nella solita cartella che si pone sulla porta della Chiesa il dì delle esequie sarà scritto soltanto il mio nome e cognome con la parola ‘Requiem’. Che se al mio erede in occasione della mia morte paresse di dare un segno dei suoi sentimenti religiosi, lo prego di non farlo in altro modo [...] mia con la distribuzione  di elemosine e col provvedere  ad infermi incurabili ed ai poveri vergognosi indicati dai Parroci della mia e della sua parrocchia di città. Ordino che le mie spoglie mortali  siano sepolte nel cimitero di Gerenzano, [...] che ciò non incontri grave ostacolo, nel quale sarà messa la sola lapide sulla quale si leggerà: ‘Federici Fagnani mortales [...] Orate pro eo.’ Il mio desiderio sarebbe che il mio corpo fosse sepolto nella cappelletta del camposanto, ma se ciò non potrà farsi si ponga più vicino che sarà possibile alla suddetta cappelletta. [...] Desidero che le mie spoglie mortali rimangano sopra terra tutto quello spazio di tempo che si potrà anche in via di grazia, salvo il caso della generale putrefazione, non per superchio amore della vita, ma per orrore del seppellimento prima della morte.” [9] Allo stato attuale, l’ubicazione della tomba del marchese (come anche la sua esistenza) rimane ignota.
Come che sia, il Fagnani lasciò tutti i suoi libri, disegni e stampe alla Biblioteca Ambrosiana: il materiale lì giunto è costituito da 23.216 volumi, 16.015 carte geografiche ed incisioni, e 4.320 disegni e oggetti, tanto che gli venne dedicata un’intera sala. Una valutazione artistica del materiale donato all’Ambrosiana ci è offerta dalla relazione stesa dall’ingegnere Carlo Berra, già amministratore del marchese e incaricato dagli esecutori testamentari di provvedere materialmente alla consegna: “In quanto alle incisioni in rame il loro numero oltrepassa le 16.000, che incorporate alle 44.000 già possedute dall’Ambrosiana presentano un insieme ragguardevole ed importante, e sommamente utili agli studiosi di belle arti. I disegni consegnati sommano a 4.320, e tanto tra le prime, quanto tra i secondi riscontransi non pochi prezzi rari, di ottima conservazione, e originali. Una piccola collezione di medaglie, in metalli diversi, ed altri in piombi, alcuni capi d’arte, e tra diversi reputati quadri una testa rappresentante un antico filosofo d’incomparabile pregio, ritenuta di Tiziano, ed un bellissimo Salvatore coronato di spine, in mosaico, con elegante corniciatura in bronzo di buon gitto (dono di un pontefice ad una allor regnante famiglia) passò con gli scaffali di ogni maniera ad impinguare le preziose raccolte che già possedeva in questi rami l’Alma Biblioteca Ambrosiana.” I libri riguardavano di tutto, dai classici greci e latini in svariate traduzioni ai testi moderni, anche con tematiche per l’epoca bizzarre (ad esempio l’elettricità); fra i pezzi rari compaiono alcuni disegni di Leonardo e di Raffaello. È comunque probabile che un gran numero di disegni veneziani e tedeschi non siano stati inclusi nella raccolta.
Destinò inoltre molti dei suoi beni alla popolazione di Gerenzano e agli istituti religiosi (principalmente alla Compagnia dei Gesuiti); commissionò prima della sua morte all’architetto Giulio Aluisetti il progetto della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Robecchetto[10].
Parte del testamento del Fagnani, conservato nell’archivio storico parrocchiale di Robecchetto, è stato trascritto in Giampaolo Cisotto, Giuseppe Leoni e Luisa Vignati, Induno, Malvaglio, cit., p. 34-36,  per questo motivo a lui è dedicata una sala della biblioteca. L’ingegner Carlo Berra, amministratore del marchese, ricevette l’incarico dagli esecutori testamentari, di cui primo esecutore fu nominato il conte Giacomo Mellerio, di provvedere alla consegna del materiale alla biblioteca.
Nella copia del testamento del 1938 e codicillo 1940, in possesso di Luisa Vignati, consigliere comunale di Robecchetto, all’art. 53, sono citati come esecutori testamentari il conte Giacomo Mellerio e il conte Antonio Greppi, che fu impossibilitato o non volle accettare l’incarico e fu quindi sostituito dal conte Monticelli Strada, cancelliere imperiale, come indicato nell’atto notarile in possesso di Luisa Vignati. Con tale atto è inoltre possibile ricostruire le vicende dell’eredità Fagnani, con riferimento soprattutto alla lite tra Antonietta Fagnani Arese e sua sorella Maria Emilia Fagnani Hertfort. Il contenzioso durò 44 anni, e si risolse solo nel 1884 con l’assegnazione dei beni immobili, con la cessazione del diritto d’albinaggio del 1815, confermata dall’art. 3 del Codice Italiano del 1865, ad Antonia, mentre i beni mobili furono divisi equamente tra gli eredi di Maria Emily e quelli di Antonia (nell’Archivio Storico Parrocchiale di Robecchetto sono conservate delle lettere del conte Mellerio in veste di esecutore testamentario).
Del suo testamento scrive Vincenzo Gioberti in Il Gesuita Moderno: “Notissimo è il fatto del Marchese Fagnani avaro, ambizioso, astuto, pizzicante dell’incredulo e dell’ateista, epicureo in morale e politica; […] Costui, venuto in fine di morte, fece per indotta del Conte Mellerio un lascito di cinque sei milioni di lire da rassegnarsi ai Gesuiti per fondare loro case e collegi con grave danno degli eredi naturali.” [11]
In seguito alla sua morte, i cittadini di Gerenzano gli dedicarono una lastra nera con scritte dorate, che venne posta nel muro all’ingresso principale della chiesa dei Santi Pietro e Paolo; il testo recita: “Honori et memoriae Friderici Iacobi fil. Fagnani march. patrici nobiltate, plurimis equitum insignibus exornati ab admissionibus et a consiliis Napoleoni aug., viri pientissimi, ingenio doctrina scripsit editis, eruditorum laudes promeritis eoque nomine in collegia pleraque litteratorum adlecti quem doli nescio vitae integrum, religio atque pietas composuerunt, vixit ann. LXV, dies XXXV, ingenti pecunia in Dei culto et in solatium miserae plebis testamento legata, placide quievit Mediolani, VIII id. october an. MDCCCXL, Gerenzanienses liberalitatibus eius recreati, patrono optimo benemeriti fac. cua.”
A Milano l’unico palazzo ancora esistente appartenuto ai Fagnani si trova in via Santa Maria Fulcorina (vicino all’Ambrosiana e ai resti di Palazzo Gorani) e lo si identifica per lo stile barocchetto lombardo e perché è adiacente a un ex oratorio, San Matteo alla Banchetta, un tempo chiesa di famiglia. Dopo l’unità d’Italia il patrimonio della famiglia Fagnani, tranne la donazione fatta alla Biblioteca Ambrosiana, fu acquisito dal neo Stato Italiano, che lo mise già nel 1867 all’asta. Luigi Canzi acquistò per una cifra irrisoria le terre del paese di Gerenzano (di cui divenne sindaco), dove i Fagnani avevano estese proprietà, come documentato dall’incartamento del 1867 depositato nell’Archivio di Stato di via del Senato a Milano.

MARIA EMILIA FAGNANI SEYMOUR-CONWAY detta “MIE MIE” (Londra, 25 agosto 1771 - Parigi, 2 marzo 1856)
Era figlia di Costanza Brusati e di William Douglas (16 dicembre 1725 - Londra, 23 dicembre 1810, sepolto in Saint James, Westminster), quarto duca di Queensberry; secondo altre ipotesi suo padre potrebbe essere stato il parlamentare George Selwyn (11 agosto 1719 - 25 gennaio 1791), o un servo dello stesso.
Durante le loro peregrinazioni, Giacomo II Fagnani e la moglie Costanza Brusati incontrarono in Inghilterra Henry Herbert (Whitehall, 3 luglio 1734 - 26 gennaio 1794), decimo conte di Pembroke e settimo di Montgomery, che amava le avventure italiane; era figlio di Henry Herbert e di Mary Fitzwilliam. Iniziarono a viaggiare assieme, e il conte divenne l’amante di Costanza. Una volta, giustificandosi con un interlocutore, asserì che la vita è troppo breve per essere limitata dalle convenzioni. Nell’inverno 1769 Costanza giunse a Londra assieme a Lord Pembroke; tuttavia questi, dopo aver perso interesse per lei, la consegnò ad una amico, il conte di March, poi quarto duca di Queensbarry, William Douglas, figlio di William Douglas, secondo conte di March, e di Lady Anne Hamilton, contessa di Ruglen.
Durante il regno di Giorgio III, in cui molti ricchi vivevano in maniera dissoluta, il più noto dei bon vivants era proprio il duca di Queensbarry, conosciuto come “Old Q”, perché tale lettera era dipinta sulla portiera della sua carrozza. Molto ricco e solitario, si dice mantenesse un harem nella sua villa di Piccadilly; la sua salute si mantenne impeccabile fino all’ultima decade di vita, un periodo nel quale la sua specialità erano le giovani cantanti liriche, di solito italiane, dai quindici anni in su. Tra coloro che riuscirono a prendere il suo cuore e il suo portafogli (almeno temporaneamente) ci furono la contessa Rena e la marchesa Fagnani.
Il 25 agosto 1771, dal club White’s di Saint James, il conte fece sapere al suo amico George Selwyn che la notte prima Costanza aveva avuto una bambina, Maria Emily, e che questa era sua figlia. La piccola venne affidata proprio a Selwyn, che la allevò come fosse figlia sua. Dopo circa sei anni Costanza, per compiacere i nonni (i quali non capivano perché la bambina era stata fino ad allora all’estero, fra persone estranee alla famiglia), chiese il suo ritorno. Tuttavia, Lord March rifiutò di intercedere per Selwyn, che fu costretto a consegnare Mie-Mie (questo il soprannome della bambina) a Parigi. Costanza e Maria Emily tornarono quindi a Milano.
Dopo un anno dalla morte di Giacomo Fagnani, George Selwyn giunse in Italia. L’inglese convinse la donna ad affidargli nuovamente Mie-Mie, ora che aveva un’altra figlia (Antonia). Mossa da considerazioni di carattere materiale, Costanza accettò, e permise a Selwyn di rendere Maria Emily sua erede.
Si sposò (Southampton, 18 maggio 1798), su imposizione paterna e ancora adolescente, con Charles Francis Seymour-Conway (11 marzo 1777 - Londra, 1 marzo 1842), conte di Yarmouth, terzo marchese di Hertford (1822), figlio di Francis Ingram Seymour-Conway, secondo marchese di Hertford e di Isabella Anna Ingram-Shepherd dei conti di Irvine. Questi fu cavaliere dell’Ordine della Giarrettiera (1822). Il matrimonio fu conveniente per entrambi, ma la famiglia Seymour non dimostrò subito di accettare la ragazza. La coppia ebbe 3 figli.
·         Francis Maria Seymour-Conway († 1822)
·         Richard Seymour-Conway (1800-1870), capitano e quarto marchese di Hertford.
·         Henry Seymour-Conway (1805-1859).
Nel 1802 entrambi vennero allontanati, e si trasferirono a Parigi, dove Maria Emilia si diede alla vita dissoluta; nel 1822 ricevette il titolo di marchesa di Hertford. Morì, sempre a Parigi, nel 1856.

ANTONIA BARBARA GIULIA FAUSTINA ANGIOLA LUCIA FAGNANI detta “ANTONIETTA” (Milano, 19 novembre 1778 - Genova, 11 dicembre 1847), dama dell’Ordine della Croce Stellata (1818, premio riservato all’aristocrazia austriaca).
Antonietta sposa il 20 febbraio 1798 in Santa Maria alla Porta il conte Marco Arese Lucini (Milano,  9 febbraio 1770  - 16 gennaio 1852), sesto conte di Barlassina, figlio del conte Benedetto Arese Lucini e di Margherita Lucini dei marchesi di Besate. Ancora giovanissimo, entrò a far parte del collegio milanese di giureconsulti. All’arrivo dei Francesi era stato chiamato da Napoleone a partecipare all’amministrazione centrale del Dipartimento dell’Olona (22 luglio 1797) e, in novembre, era stato eletto a far parte del Consiglio degli Juniori per il Dipartimento della Montagna. Un austero magistrato, quindi, sposò la frivola Antonietta.
Dopo il grand tour d’obbligo, l’Arese viene nominato nella Consulta di Lione deputato dei notabili per il Dipartimento dell’Olona al posto dell’anziano padre; era deciso a battersi per la proporzionalità dei tributi, l’abolizione della libertà di stampa e la restaurazione della religione, interpretando i sentimenti della nuova politica napoleonica, da vero conservatore. Venne inviato con incarichi speciali presso Napoleone a Parigi nel 1805 e nel 1811, e nel 1812 venne creato barone del Regno.
La moglie Antonietta è considerata una delle figure di maggior spicco della brillante società milanese del Consolato e dell’Impero, venendo ammessa alla corte del vicerè Eugenio e legandosi con un caldo rapporto d’amicizia alla regina d’Olanda, Ortensia Beauharnais, il cui figlio passò alla Storia col nome di Napoleone III. La contessa conosceva il francese, l’inglese e il tedesco, tanto che aiutò il Foscolo nella revisione della prima stesura del 1798 delle Ultime Lettere di Jacopo Ortis (1802), traducendogli letterariamente I Dolori del Giovane Werther di Goethe. La sua passione per Ugo Foscolo fu breve ma intensa, e si snodò sullo sfondo del palco della Scala F n° 14 del 1° ordine. Ci è noto attraverso le sole lettere del Foscolo, e sembra aver avuto inizio nel torrido luglio 1801. A lei l’esuberante poeta dedicò All’amica risanata (E com’eri tu bella questa sera! Quante volte ho ritirati i miei occhi pieni di spavento! Sì, la mia fantasia e il mio cuore cominciano a crearsi di te una divinità.”). “La contessa in sul principio sentì l’orgoglio di avere nel proprio dominio quella fiera generosa e indomita”, ma si stancò ben presto, suscitando la gelosia del poeta che arrivò a somministrarle una scudisciata quando la colse in atteggiamento inequivocabile con un giovane graduato. Il 4 marzo 1803 l’avventura amorosa era già conclusa, con uno strascico di malattie veneree di cui i due si palleggiavano la responsabilità del contagio. Foscolo scrisse al Pecchio che Antonietta “aveva il cuore fatto di cervello”, e come tale la contessa passò alla storia.
La sua immagine è in ogni caso molto controversa: Stendhal la definì “femme de génie”, Monti la stimava moltissimo, e più psicologico fu il giudizio di Giuseppe Pecchio, che disse di lei: “Si fa gioco degli uomini perché li crede nati come i galli per amare, ingelosirsi e azzuffarsi.” Colui che meglio la descrisse, però, fu Rovani nel cap. XV del suo romanzo Cent’anni: “La contessa A..., bellissima fra le belle, aveva molto spirito, molto ingegno, molta coltura (parlava quattro lingue); era buona, generosa e affabile; costituiva insomma il complesso rarissimo di egrege qualità; ma tutte parevano sfasciarsi sotto l’uragano di un difetto solo. Ella faceva dell’amore l’unico passatempo; ma un passatempo tumultuoso, fremebondo, irrequieto; né occorre il dire che quell’amore era parente di quello rimasto nudo in Grecia, come disse Foscolo. Ma lo stesso Foscolo si trovò un bel giorno avvolto e impigliato nell’ampia rete che la contessa teneva sempre immersa nella grande peschiera della capitale lombarda.  Il lettore non può immaginarsi quanti belli e cari giovinetti si trovarono a sbatter le pinne convulse in quella rete ognora protesa: giovani cari e belli, e, ciò che fu il danno, senza punto d’esperienza, che pigliando fieramente in sul serio le care lusinghe di quella sirena, ebbero poi a subire disinganni orridi. Ma non solo i giovinetti di prima cottura, non solo i paperi innocenti del ruscelletto, ma frolli don Giovanni e grossi topi veterani del Seveso, dovettero sovente parer novizi al contatto maliardo di quella donna. Colei, lo ripetiamo, non era cattiva, ma nel suo intelletto e nel suo cuore non era mai penetrata l’idea della costanza in amore. Né è a credere che non amasse; amava assai, amava ardentemente; e nei primi istanti che le entrava nel sangue la scintilla incendiaria, ella non aveva pace e si struggeva finché non avesse potuto accostare l’oggetto dei suoi desideri. Ma un amante nelle sue mani non era né più né meno di un cappone messo in sul piatto di un ghiotto. In pochi momenti non rimanevano che le ossa, e la fame chiedeva tosto altro cibo. Ella era tanto bella e cara e seducente, e nel periodo acuto del suo innamoramento faceva provare tali estasi a chi ne era il passeggero oggetto, che questi subiva tosto quella passione acuta che non soffre commensali alla medesima tavola. Ognuno voleva essere il solo possessore di quel caro bene. Ma il caro bene non volendo vincoli di sorta, e dando accademia d’amore, metteva tosto alla porta i pretendenti che ambivano un trono assoluto, ed erano avversissimi alla monarchia mista.”
Il conte Arese finse di non accorgersi di questo trambusto sentimentale della moglie. Ebbero cinque figli, dei quali solo tre sopravvissero: Margherita (30 dicembre 1798 - 26 marzo 1828), Maria Costanza (1803 - 1822) e Francesco Benedetto (12 agosto 1805 - 1881).
Antonietta ereditò il patrimonio immobiliare che i Fagnani possedevano in Robecchetto e dintorni, che così entrò nella “Casa Arese” (o Caresa, in dialetto locale), ove tra l’altro iniziò i lavori dell’attuale Cascina Grande nel 1841. Molte sono le storie e leggende che circondano il personaggio: si racconta che quando la contessa arrivava in paese, i capifamiglia, in segno di sottomissione, stendessero il tabarro (il grande mantello dei contadini lombardi) sotto la carrozza. Si dice anche che le campane della chiesa avessero un suono così argentino perchè Antonietta aveva personalmente versato mezzo secchio di argento fuso nello stampo. Si tramanda inoltre che la contessa, donna di grande fascino, arrivasse al palazzo di Robecchetto in compagnia di nobili ospiti; in una famiglia del paese si conserva ancora la lanterna della sua carrozza. Durante il periodo natalizio si svolgeva la processione degli uomini di Caresa, il cui ricordo viene oralmente tramandato presso i Robecchettesi: la sera della vigilia, prima della mezzanotte, tutti gli uomini di Casa Arese (guardiacaccia, campari, massari e pigionanti)  si riunivano nel cortile nobile del palazzo, chiusi nei loro ampi mantelli, portando ciascuno una lanterna. Poi, in solenne processione e cantando un particolare inno natalizio (che la prof.ssa Carla Gennaro ha cercato di ricostruire), questa processione esclusivamente maschile usciva dal cortile attraverso l’imponente cancellata e si avviava alla chiesa. Pare fosse una cerimonia emozionante nella sua solennità e per questo resta ancora il ricordo, dopo quasi cento anni.
Alla caduta di Napoleone, il conte Arese si ritirò a vita privata. Il Comune di Milano lo mandò quale inviato speciale presso Francesco I d’Austria, ma non entrò mai a far parte del governo cittadino, preferendo appartarsi. Non così fecero, con suo grande disappunto, suo fratello Francesco Teodoro e suo figlio Francesco Benedetto. Nel frattempo Antonietta, a causa di una grave malattia venerea, nell’ottobre 1847 fu spostata a Genova, dove si spense l’11 dicembre 1847 e venne sepolta nel convento dei Cappuccini, accanto alla nuora Carolina Fontanelli, di cui aveva patrocinato il matrimonio col figlio; sulla sua lapide sta scritto: “Qui piamente composta dalla reverenza filiale aspetta il giorno di Dio la spoglia della gentildonna milanese Antonia Arese de’ marchesi Fagnani, che ai doni della natura e della fortuna aggiunse i pregi della bontà e ottenne lode d’opere benefiche e sante. Visse anni LXIX, moriva in Genova nel MDCCCXLVII.” A suo ricordo rimase il balconcino di casa Arese in corso Venezia a Milano, e la leggenda del suo fantasma, che si affacciava con in testa il cappello di paglia forse a scrutare i bei giovanotti che si attardavano lungo il corso nelle notti di Luna piena; il palazzo venne distrutto dalle bombe e completamente rifatto in tempi recenti, ma per qualche motivo il balcone è stato salvato e rimesso al suo porto originario. Marco Arese la seguì il 16 gennaio 1852, e Francesco continuerà la sua carriera politica nel governo del Regno dell’Italia unita.
Nel 1911 i campi, le vigne, i boschi, gli orti e le case contadine in Robecchetto e nei paesi vicini che già furono del marchese Federico Fagnani, poi della Casa Arese, vennero venduti in blocco all’ex fattore e ai borghesi (ing. Airoldi, Gennaro, Varzi e Alberio), che si erano nel frattempo arricchiti. Restava solo il palazzo, costruito nel XVII secolo e modificato alla fine del secolo successivo, imponente e solitario dietro la bellissima cancellata in ferro battuto che segnava il “giro delle carrozze” e con molte comodità, come un pozzo privato di acqua potabile, una pompa idraulica e una ghiacciaia. O meglio, del palazzo restava agli Arese solo la parte nobile, perchè l’ex fattore e l’ingegner Airoldi si erano assicurati le altre porzioni del complesso (l’ala del torchio e quella delle abitazioni dei sottoposti). Nel 1915 gli amministratori comunali misero gli occhi sul palazzo per adibirlo a municipio e scuola e, dopo lunga contrattazione con gli Arese, riuscirono ad acquistarlo.



[1] Lettere, tomo II, p. 6
[2] Ibid., tomo II, p. 10
[3] Ibid., tomo II, p. 8
[4] Ibid., tomo II, p. 9
[5] Carlo Botta, Storia d’Italia dal 1789 al 1814, Italia, [s.n.], 1834, p. 564.
[6] Luigi Lanzi, Storia Pittorica della Italia dell’ab. Luigi Lanzi Antiquario della R. Corte di Toscana, Bassano, a spese Remondini di Venezia, 1795-1796, pag. 23.
[7] Federico Fagnani, Osservazioni di Economia Campestre Fatte nello Stato di Milano, Milano, Giunti, 1820, p. 204
[8] Federico Fagnani, Notizia della Bigattaja Padronale della Fagnana Seguita da Alcuni Cenni sui Vantaggi di Tali Bigattaje, Milano, Bernardoni, 1816, p. 56
[9] Dal testamento del marchese Fagnani (archivio di Robecchetto).
[10] Laura e Angelo Vittorio Mira Bonomi, La Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Robecchetto, Milano, Fondazione Primo Candiani, 2003, p. 4
[11] Vincenzo Gioberti, Il Gesuita Moderno, Losanna, Bonamici, 1847, t. 4., p. 466.

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