lunedì 19 dicembre 2016

Magia a pagamento





“Interrogata se gl’è stato dato altro che denari in pagamento, dixe m’è stato dato un lotto di civaie o un pane o una coppia di pane.” (dal processo a Gostanza da Libbiano, c. 8r)

Quest’estate ho acceso a caso la tv, e mi sono trovato davanti un cartomante, tale Alessio.
Mi sono seduto e ho guardato un paio di consulti, con occhio inquisitorio.
Anzitutto usava un mazzo di soli arcani minori (probabilmente le Sibille). E fin qui ok, de gustibus.
Domanda (signora anziana): «Ho conosciuto un tale su Facebook, ma l'amicizia è diventata qualcosa di più, io però sono impulsiva, e lui mi ha tolto l'amicizia, come andrà a finire?»
«Non mi dire niente, mi serve solo il nome di lui.»
«Giuseppe.»
Lui ha iniziato a mettere giù carte su carte in fila, alla velocità con cui le si distribuisce a una partita di poker, fino a mettere sul tavolo quasi mezzo mazzo, e ha fatto: «Con questo non ci concludi nulla, lascia perdere.»
Anzitutto non ho capito la tecnica, se una tecnica esisteva, ma soprattutto conosco gente che avrebbe saputo rispondere estraendo una singola carta, a un quesito tanto banale. E a parte tutto, a che gli serviva il nome?!
Seconda domanda (altra anziana): «Ho litigato con mia figlia, volevo sapere se ci sarà una riappacificazione.»
«Come si chiama tua figlia?»
«Cristina.»
Stessa operazione, e risposta: «Sì, ci sarà una riappacificazione. Lei ha un carattere un po’ orgoglioso, però bisogna portare pazienza.»
E questa se mi permettete è una cosa che qualunque persona di buon senso avrebbe potuto rispondere, senza ricorrere a mezzi magici.
Ha quindi concluso con: «Vorrei ricordare a tutto il mio pubblico [per la maggioranza di anziani, come ha detto in precedenza], che i miei consulti telefonici sono sicuri all'80%, quelli di persona al 99%. Comunque non vi preoccupate, le cifre sono davvero alla portata di tutti: del resto io credo che chi fa questo lavoro lo faccia per aiutare gli altri.»
Io: «E allora fai a offerta, come la Signora del Gioco comanda!», e ho spento.
Qualche giorno dopo, ripensando a questo fatto, m’è capitato di discutere e pensare riguardo la liceità del chiedere un compenso quando si opera magicamente, qualunque sia l’ambito (dalla divinazione, alla guarigione, e così via). In effetti, ciò che spesso distingueva sin dall’Antichità un vero operatore di miracoli da un qualunque ciarlatano di strada, era che il primo conduceva una vita semplice e non chiedeva nulla in cambio della sua opera, mentre il secondo spesso si faceva pagare profumatamente per i suoi servigi (pensiamo, come sempre, alla solita opposizione tra Apollonio di Tiana e Alessandro di Abonutico).
Leggendo un libro del 1984 sui segnatori (o guaritori di campagna, che dir si voglia), mi sono reso conto che questa pratica del “ricevere offerte, ma non pretendere nulla” è ancora in voga, e non credo derivi dalla morale cristiana, la quale tutt’al più l’ha rafforzata.
Personalmente la ritengo una buona etica, che si rifà a concetti “teologici” vecchi come il mondo. Dunque diffidate per principio di quelli che vi offrono i loro servigi corredati da un preciso tariffario: l’offerta libera o tutt’al più il compenso simbolico sono a mio avviso segno di una pratica e di un intento più sani.
Vi riporto dunque qui le testimonianze di alcuni segnatori, e di come si comportano a riguardo, per riflettere un po’ sulla faccenda, che penso sia interessante. Il libro è I guaritori di campagna tra magia e medicina, di Paola Giovetti, Edizioni Mediterranee (Roma 1984, ried. 2016). Buona lettura.

• «Io non chiedo mai niente. Se mi danno qualcosa, bene, se non mi danno niente, va bene lo stesso.» - Marino Cancelli di Foligno (Perugia)

• «Non voglio che mi diano assolutamente niente. Su questo punto non si discute.» - Fabio Borghini di Gaville (Arezzo)

• «Non voglio niente, la gente mi vuole pagare, ma io non voglio: non li saprei spendere i soldi guadagnati così. C’è gente, a dire il vero, che lascia i soldi sul tavolo, ma io glieli rimando indietro. Invece, se mi portano un regalo, lo accetto per non offenderli, ma soldi niente.» - Lidia Lucci di Vitiano (Arezzo)

• «Io non chiedo niente, però loro mi danno qualcosina, perché pensano che se non danno niente la cura non conta.» - Nella Cavina di San Cassiano di Brisighella (Ravenna)

• «Quel che mi danno, mi danno, io non chiedo niente, non posso. Ma quello che mi danno, non posso dire di no. Mi fanno piacere quando mi portano le sigarette, le Nazionali. Oppure una bottiglia di vino…» - Angelo Gamberi di Marradi (Firenze)

• «Non ho mai preso neppure una lira. La nonna faceva così, e così faccio anch’io. Lei chiedeva solo a chi si faceva segnare di dire qualche preghiera per lei, questa era la sua ricompensa. Sarà andata in Paradiso senz’altro, la nonna, perché era una donna così buona!» - Rita Fusai di Sarsina (Forlì)

• «Qualcuno mi dà qualcosa, ma mica tutti. A certuni non viene neppure in mente, oppure quando dovrebbero venire per l’ultima volta non vengono, così non li vedo più. Ma non importa, sono vecchia, ho bisogno di poco.» - Angelina Saba di Gonnosfanadiga (Carbonia)

• «Se vogliono mi danno qualcosa, ma è lo stesso anche niente. Non si segna per soldi, non ho pretese io.» - Giovanni di Ortueri (Nuoro)

• «Chiedere non va bene. Io non chiedo mai niente, però mia madre diceva che loro qualche cosa dovrebbero darla, altrimenti il segno non serve. Basta una piccola cosa, una bottiglia di vino, un pezzo di pane, cento lire. Oppure qualcosa per la chiesa: una candela accesa, una messa. Sa, queste cose non si fanno mica per guadagnare, per farle bisogna solo aver voglia di far bene.» - Nerina Toni di Soliera (Modena)

• «Io non chiedo niente, ma non posso rifiutare se mi portano una scatola di cioccolatini o un pezzo di formaggio grana. Né chiedere né rifiutare, questa è la regola.» - Elvira Messori di San Pancrazio di Modena

• «Niente, io non chiedo niente. Di soldi non ne voglio sentir parlare, se mi portano qualcosa in natura accetto, specie piante. Ha visto quanti vasi ho in casa? Quasi tutti vengono da persone che ho curato!» - Ester Garzoli di Roccapelago di Pievepelago (Modena) 

• «Io non prendo niente da nessuno! Se poi una volta guariti mi vogliono offrire un caffè o regalare una bottiglia, non rifiuto di certo, però soldi non ne voglio perché non sono io che guarisco: è il Padreterno.» - Agostino Leoni di Biforco (Firenze)

• «Guarda, lo zio mi diceva sempre: “Tu devi essere un uomo onesto, non ti devi approfittare delle persone che soffrono.” E infatti io non chiedo niente, non posso chiedere niente. Quello che mi danno, mi danno.» - Corrado Mosconi di Potenza Picena (Macerata)

• «Io non chiedo regali, però loro qualcosa mi portano. C’era uno che si era slogati tutti e due i piedi, ed era stato due mesi in ospedale senza guarire. Poi è venuto da me, io l’ho segnato due volte, e il secondo giorno stava già meglio. L’ultima volta che è venuto mi voleva dare diecimila lire. Io non le ho volute perché erano troppe, e allora mi ha portato una sporta piena di zucchero, caffè e biscotti.» - Emilia Bruni di Perducco di Zavattarello (Pavia)

• «Mi portano quello che vogliono, anche niente. Se mi danno dei soldi, li regalo quasi tutti.» - Sante Camicia di Viterbo 

• «Mi danno quello che vogliono. Io chiedo solo cento lire per l’olio, perché dicono che se non si dà niente, non conta. Ma i soldi non mi interessano. Preferisco che dicano una preghiera per me: ne dico tante per gli altri, di preghiere, che per me non ho tempo!» - Mafalda (Emilia)

• «Il secret non si paga, è un dono che è stato dato gratuitamente, e gratuitamente lo si deve dare. Io posso accettare piccolissimi doni in natura, e invito le persone a donare a chi ha bisogno...» - Maria Boniface di Aymavilles (Aosta)

martedì 13 dicembre 2016

L'offerta votiva: basta il pensiero?

Un grazie a Sara Benatti, Salvatore Fortunato, Massimo Gandola, Elia Pescatori e Luca Tarenzi per avermi dato idee e suggerimenti per la stesura dell’articolo.

Immaginiamo due uomini che, inerpicandosi su per una strada di montagna, non molto lontani dall’ultimo centro abitato, si fermano a osservare un isolotto in mezzo al torrente, sul quale cresce un albero. Si guardano a vicenda, annuiscono e lo raggiungono, discutono brevemente su cosa fare, e infine dispongono delle offerte per gli spiriti della montagna ai quattro punti cardinali, usando le nicchie create dalle radici come altare. A nord mettono della carne cruda bagnata nell’acquavite, a ovest un paio di uova e una libagione di latte, a sud una mela e delle noci, a est una fetta di formaggio coperta di miele. A quel punto intonano delle preghiere a ognuno degli spiriti cui è stata fatta l’offerta, e poi si congedano, lasciando il cibo sul posto.
È sicuramente un’operazione semplice, e come cerimonia è tutt’altro che spettacolare: eppure c’è una simbologia per il luogo e la disposizione, una scelta accurata delle offerte (per quanto povere), e soprattutto c’è sincera devozione. O meglio, possiamo vedere che c’è proprio in vista del fatto che il rituale non è stato eseguito a caso. E detto onestamente, ho sempre pensato che tutto ciò fosse un po’ la base dell’offerta sacrificale, in qualsivoglia religione.
Alcuni giorni fa è stata portata alla mia attenzione la pagina Facebook di un gruppo di ricostruzionisti romani, tale Communitas Populi Romani, a loro stesso dire “un sodalizio spontaneo di uomini liberi che si riconoscono negli stessi valori spirituali e culturali che la religione di Roma antica, pubblica o privata, sapeva esprimere e trasmettere diventando un collante dell'intera società.” Per chi non lo sapesse, il ricostruzionismo è un insieme di correnti della religione neopagana, le quali riprendono le religioni etniche della propria terra, riproponendole al giorno d’oggi il meno variate possibili. Purtroppo (soprattutto in Italia e nei Paesi germanici), questi gruppi sono più che altro associazioni di Estrema Destra che celano le loro ideologie nazifasciste dietro il manto della religione pagana: non dovrebbe però essere il caso della sopraccitata Communitas, il che per una volta mi fa piacere.
Non mi fa altrettanto piacere ciò che ho visto nelle foto. Nello specifico vorrei parlare di questa, tratta dall’album di immagini relative al rito in onore di Libero e Libera, eseguito al Giardino degli Aranci di Roma il 23 ottobre di quest’anno. È intitolata “Offerta al Genius Loci”, il che rende chiaro sin da subito di che si tratta: il sacrificio conviviale allo spirito tutelare del luogo nel quale il rito è stato eseguito.


Sarò chiaro: quello che vedete qua sopra non è il sacrificio per un dio, ma pura e semplice immondizia.
Se qualcuno lo vedesse, penserebbe che si tratta dell’offerta a uno spirito? Ovviamente no.
Ogni volta che i telegiornali urlano al sacrificio satanico e alla messa nera, in genere è perché viene trovata per strada qualche offerta agli dèi delle tradizioni africane o afroamericane, che nemmeno per sbaglio possono essere scambiate per spazzatura o, come in questo caso, per un piatto sul quale sono stati messi gli avanzi di un pic-nic. Perché di fatto, diciamocelo, è assolutamente questo quello che sembra.
In antropologia si dice che “tutte le religioni prevedono offerte alle potenze invisibili, siano queste divinità, spiriti o ‘forze della natura’. Uccidere animali o esseri umani ‘consacrati’ (sacrifici umani come quelli che si avevano nel mondo antico o tra gli Aztechi), offrire piccoli animali domestici (usanza particolarmente diffusa in Africa e in Sudamerica), incollare banconote alle statue dei santi portate in processione come nell’Europa meridionale mediterranea, sono tutte forme di ‘sacrificio’. Il sacrificio è inteso dai credenti come un atto capace di sollecitare la benevolenza della potenza spirituale invocata, ma è interpretabile anche come un atto capace di rinsaldare il senso di comunione tra i fedeli.”[1]
Ora, pare evidente che per costoro il senso di comunione nel sacrificio alla divinità che li ospita sia quello di raccogliere cibo random nello stesso piatto, senza soluzione di continuità, senza darsi pena per disporlo in maniera accettabile, senza nemmeno usare un supporto diverso da un piatto di plastica. Soprattutto, questa foto viene mostrata quasi con orgoglio, come a dire: «Non ci siamo dimenticati del genius loci, vedete? Questa è la sua offerta!»
Eppure l’offerta, nella tradizione romana, dovrebbe essere qualcosa di estremamente importante, visto che “l’atto centrale del culto è il sacrificio [...] Esistono diversi tipi di sacrificio: innanzitutto l’offerta di prodotti della terra o di cibi: primizie (sia della mietitura sia della vendemmia), dolciumi, libagioni di latte […] o di vino […] da versare sul braciere dell’ara. […] Il pasto [viene] preso in comune dagli uomini e dagli dèi, espressione dei valori forti derivanti dall’atto di condividere il cibo e, in senso proprio, dalla convivialità: il sacrificio antico è anche comunione con il divino.”[2]
Ma ribadisco, in questo caso il dio non è stato reso partecipe del banchetto: non c’era un posto a tavola per lui, né su un piatto di plastica (come quello di tutti gli altri) venivano posti man mano i cibi, come se fosse egli stesso invitato a festeggiare coi partecipanti. Il cibo è stato tutto raccolto prima (o dopo, non lo so), ammassato come una serie di avanzi o come il pastone di un animale, e pare evidente che i praticanti in questione ritenessero che nessuno avrebbe davvero mangiato da quel piatto. E del resto, se a voi avessero offerto non un posto a tavola, ma quel piatto, quella caotica accozzaglia di cibo, lo avreste mangiato? Io onestamente no. Dunque perché trattare un dio peggio di uomo, soprattutto durante un rituale, ovvero un’occasione nella quale è proprio il Divino a essere la parte centrale di tutto e il motore dell’azione stessa?
Nel sacrificio l’offerta è parte di qualcosa di più complesso e, per citare Saluzio, “gli dèi non guadagnano nulla da tutte queste azioni (e quale mai sarebbe il guadagno per essi?), ma noi otteniamo l’unione con loro.”[3] Dunque il sacrificio ha lo scopo primario di unire col Divino, di creare in noi quelle sensazioni, quelle emozioni e quelle riflessioni (potremmo dire quella forma mentis, quel paradigma) che ci permette di essere più ricettivi nei confronti dell’Altrove. E non è che fare un sacrificio sia qualcosa di estremamente complesso, anzi: si può fare con pochissimo, l’importante è la dedizione che ci si mette (come nella sequenza citata all’inizio).
Qui di seguito vi riporto un paio di esempi di sacrifici celebrativi neopagani, fatti da miei conoscenti: il primo, per lEquinozio dAutunno, consta di una tavola sulla quale sono state ben disposte primizie di stagione e foglie secche, con alcune candele accese, in modo da rendere il tutto esteticamente piacevole alla vista, ma con una simbologia corretta che ricorda sia l’arrivo dell’autunno che la devozione personale. Il secondo, per Lughnasadh, è ancora più semplice: un cesto di vimini con fiori, spighe e candele colorate, semplici offerte che indicano la transizione dalla primavera all’estate. Entrambe ricordano molto le offerte che si facevano nelle campagne, quelle della tradizione popolare (sia pagana che cristiana), dunque nulla di complicato, eppure chiunque veda queste immagini (soprattutto la prima) penserà subito a un’offerta religiosa.


O ancora, se non si possono disporre in pompa magna oggetti o cibi, un altro sacrificio tanto semplice quanto dignitoso è la preparazione di qualcosa: non necessariamente piccole opere d’arte come statuette di legno o disegni dipinti, ma anche solo un cibo o una bevanda pensati per essere offerti unicamente agli dèi. Sminuzzare erbe e spezie per preparare un liquore particolare da usare solo nelle celebrazioni è di per sé un atto devozionale, perché è un’offerta che è stata preparata appositamente per la divinità.

Credo sia buona norma ritenere che, quando facciamo un’offerta a una “potenza invisibile”, deve trattarsi di qualcosa che a noi stessi farebbe piacere accettare, se non nella sostanza almeno nella forma. Per fare un altro esempio molto banale (e quasi profano), quando si va dal prete a chiedere le messe annuali per i propri defunti, in genere il compenso viene dato in forma monetaria: ma anche in questo caso è buona norma non schiaffare in mano al sacerdote la banconota (come si potrebbe fare per pagare un panettiere o un idraulico), ma mettere i soldi in una busta, in modo da rendere la cosa (che a conti fatti è un’offerta religiosa) un minimo più elegante.


Dopotutto, mi sento di dire che è attraverso la cura che mettiamo negli atti devozionali che si esprime la nostra dedizione al culto: posso banalmente dire che lo stesso termine “sacrificio” indica il “rendere sacro” (sacra facere), non solo riferito all’oggetto devozionale, ma all’azione stessa che implica la sua creazione, che può essere sia in termini monetari, ma anche semplicemente di tempo o di energie. E forse un po’ a tutti è venuta in mente l’episodio evangelico che dice: “Alzati gli occhi, [Gesù] vide alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro. Vide anche una vedova povera che vi gettava due spiccioli e disse: «In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti. Costoro, infatti, han deposto come offerta del loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere.»”[4]
A voler essere ancora più pratici, a livello puramente magico potremmo anche dire che, parafrasando Alan Moore, è venuto il momento […] di concepire la magia più in termini di realizzazione artistica. Altrimenti, il rischio è quello di essere al tempo stesso superficiali e non così interessanti” [5], di realizzare cioè atti magici che Dimitri definisce “esecuzioni imbevute di potere reale, come lo è ogni forma d’arte” [6]. Del resto il già citato Saluzio ci ricorda che “le preghiere senza sacrifici sono soltanto parole, ma quelle che accompagnano i sacrifici sono ricche d’anima, la parola fortificando la vita e questa animando la parola.”[7]
Mi sento di concludere dicendo semplicemente che il sacrificio al genius loci fatto dalla Communitas Populi Romani era un’idea carina ma, senza voler accusare nessuno, si poteva fare meglio[8]. E spero di aver reso chiaro che bastava davvero molto poco, ma che era importante, soprattutto per un gruppo che vorrebbe riproporre i valori spirituali della religione romana.



[1] Ugo Fabietti, Elementi di antropologia culturale, Mondadori (Città di Castello 2004), p. 236.
[2] Jacqueline Champeaux, La religione dei Romani, Il Mulino (Bologna 2002), pp. 87 e 90-91
[3] Saluzio, Gli dèi e il mondo XV 3
[4] Luca 21, 1-3.
[5] Francesco Dimitri, Saint Spider. Dance, possession, sex, art, in Abraxas n. 3 (2013), cap. 7 (traduzione dell’autore).
[6] Ibid.
[7] Saluzio XVI 1
[8] Semicitazione che vi sfido a riconoscere.

giovedì 1 dicembre 2016

Storia della Magia 09 - La magia contemporanea



LA SEGNATURA
 
Alcuni strumenti da segnatura.

Almeno sin dal Rinascimento abbiamo testimonianza di uomini e donne che, soprattutto in campagna, operavano guarigioni non solo tramite la conoscenza delle erbe, ma anche con mezzi di natura magica: essi, presenti ancora oggi e in buon numero, utilizzano una gestualità di tipo apparentemente pagano, ma al tempo stesso invocano i santi cristiani e fanno uso del segno della croce (quello del “segnare” è anzi una caratteristica costante del loro intervento terapeutico). La presenza di pratiche simili nei processi per stregoneria (e l’esistenza ancora attuale, seppur minoritaria, di pratiche non legate alla religione cristiana, per quanto non sembra essersi conservata l’estasi e l’interazione con gli spiriti famigliari) hanno indotto gli studiosi a supporre, con buona certezza, che la segnatura altro non sia che una forma di magia popolare di origine pagana, cristianizzatasi nel corso dei secoli a seguito delle persecuzioni ecclesiastiche contro le streghe; sta di fatto che oggigiorno i praticanti sono in genere persone molto religiose.
I segnatori, la cui abilità è spesso denominata “dono” o “virtù”, diventano tali per nascita o per ereditarietà: nel primo caso, a seconda del luogo, vengono considerati benedetti i bambini che “nascono con la camicia” (ovvero avvolti nel sacco amniotico), oppure i settimini (il settimo figlio di un settimo figlio), e in questo caso la levatrice pone loro in mano il simbolo di ciò che saranno destinati a curare (un carbone per il fuoco di sant’Antonio, un baco da seta per i vermi, e via dicendo), oppure vengono nascosti i futuri strumenti nell’abito del battesimo. Nella maggioranza dei casi, però, la virtù si trasmette per ereditarietà, quando un guaritore anziano insegna parole, segni e riti (in genere la notte di Natale) a un discepolo, il quale deve desiderare il potere di curare per puro altruismo, oltre che mantenere il segreto delle parole magiche. In genere i segnatori considerano l’uso del loro dono un dovere religioso e sociale, tant’è vero che  non chiedono compensi, ma operano a offerta (anche in natura).
I segni che i guaritori fanno sulla parte ammalata sono in genere quello della croce, ripetuto più volte (segni diversi come il punto o il pentacolo vengono usati in alcune zone, ma in maniera minore), e usano anche strumenti particolari (ad esempio oggetti benedetti); non è raro che vengano effettuati anche piccoli rituali usando strumenti semplici come fiori, semi, rami, acqua e sale; vengono inoltre rispettati determinati tempi, spesso in base alle fasi lunari. Le loro guarigioni non si limitano però ai mali fisici (che a volte un guaritore si specializza nel curare), ma vengono operate anche piccole divinazioni e scongiuri contro malocchi e fatture, fino a riti per modificare il tempo atmosferico o per esorcizzare entità maligne che possiedono il paziente.

LA WICCA

Un esempio di altare wiccano.

Derivata dal misticismo rosicruciano e dalla magia cerimoniale (soprattutto thelemita), la wicca (dall’antico inglese wicca, stregone) è una religione neopagana molto improntata sull’attività magica, tanto da potersi definire una “religione della magia”. A fondarla, nel 1946, fu l’inglese Gerald Gardner (1884-1964), che si fece l’ideale continuatore dell’antica stregoneria pagana (e di un presunto culto preistorico del Dio Cornuto e della Dea Madre), riunendo alcuni adepti in una congrega (coven) per la pratica comune e segreta; la wicca si sviluppò come un culto misterico, al quale si poteva essere iniziati solo dopo la consacrazione da parte di Gardner o dei sacerdoti e delle sacerdotesse iniziati a loro volta (si vennero così a formare dei veri e propri lignaggi sacerdotali). La prima scissione si ebbe con la fuoriuscita dalla congrega di Alex Sanders (1926-1988), che fondò la prima corrente wiccana non gardneriana e con lignaggi propri non autorizzati (quella alexandriana, appunto), la quale prevedeva nella pratica magica anche l’utilizzo di elementi non pagani, come le chiavi enochiane e i sigilli angelici, e accentuava il valore della ritualistica di stampo ottocentesco. Sanders ebbe dunque il merito di portare all’attenzione dei media la wicca, che iniziò a far parlare di sé soprattutto negli Anni ’70: fu sostanzialmente per questo che molti si avvicinarono a essa ma, nell’impossibilità di accedere a un’iniziazione formale (o per semplice antipatia nei confronti dei fondatori), iniziarono a praticare la magia in maniera solitaria; in questo frangente, l’americano Scott Cunningham (1956-1993), col suo Wicca, creava una versione della magia wiccana per il praticante solitario e non iniziato (per molti versi “annacquata” e più new age rispetto a quella delle congreghe), cosa che gli venne aspramente criticata, ma che permise la nascita della cosiddetta “wicca solitaria” o “eclettica”, di fatto la fetta maggioritaria dell’intera religione. Essendo il culto della Dea molto forte, alcuni gruppi particolarmente femministi hanno poi eliminato la figura del sacerdote, conservando solo la sacerdotessa.
L’altare per la pratica wiccana, chiuso in un cerchio, è simile a quello della magia cerimoniale: esso conserva, più o meno con la stessa simbologia, la bacchetta, il calice, la spada, il pentacolo, le corde, la frusta (usata qui per le iniziazioni) e il grimorio sul quale il wiccano annota i suoi rituali (il cosiddetto “libro delle ombre”); vi aggiunge però due coppe per le purificazioni (una con acqua e una con sale), l’incensiere, la scopa e il calderone (come simbolo della stregoneria tradizionale), la rappresentazione dei due dèi, e una particolare coppia di pugnali, uno col manico nero (athame) usato per le invocazioni e i congedi, e l’altro col manico bianco (bolline) usato invece per tagliere, incidere e scolpire. Per quanto riguarda le veste, invece, Gardner specificava che la pratica andava effettuata stando nudi (“vestiti di cielo”), a simboleggiare la caduta di ogni vincolo sociale, ma rigorosamente al chiuso; altre correnti hanno poi iniziato a praticare la nudità all’aperto (soprattutto nei boschi) o a dipingersi il corpo, sebbene la maggioranza preferisca vestirsi con tuniche e tabarri o con abiti comuni.
La wicca si fonda sulla convinzione che il praticante possa mobilitare una certa “energia” presente in tutte le cose (di solito presa direttamente dalla terra tramite la trance indotta con la danza o la meditazione, meno spesso col sesso o le sostanze psicotrope) e utilizzarla in seguito per i suoi scopi (in genere incantesimi, divinazioni e guarigioni, prese dalle più disparate tradizioni esoteriche). In generale, la pratica magica wiccana è regolata da una massima fondamentale, denominata wiccan rede, che recita: “Fai ciò che vuoi, finché non fai del male a qualcuno.” Viceversa, la cosiddetta “legge del tre” spesso associata alla wicca, che prevede che ogni volta che si compie un atto (buono o malvagio) quello tornerà al praticante triplicato,  non ha un reale fondamento nel pensiero gardneriano.

IL SATANISMO

LaVey con il baphomet, simbolo del satanismo razionalista.

Sebbene i media tendano a dare spazio unicamente alle forme devianti di satanismo (quello cosiddetto “acido”, ovvero legato al mondo della criminalità), è giusto dire che anche questa religione ha trovato una sua sistematizzazione nel corso del XX secolo con la fondazione della Chiesa di Satana nel 1966, a opera dell’americano Anton Szandor LaVey (1930-1997, nato Howard Levey): pur non credendo né all’esistenza di Dio né a quella del Diavolo (o per lo meno, non nel modo in cui li descrivono le religioni tradizionali), e anzi predicando un pensiero filosofico ateo, il cosiddetto satanismo razionalista prevede lo sviluppo della piena libertà e felicità dell’uomo tramite il distacco da tutto ciò che li impedisce, ovvero i vincoli sociali oppressivi. Per questo motivo, mantenendosi sempre nella legalità e rifacendosi al pensiero thelemita, LaVey elaborò dei rituali di ispirazione magica che dovevano fungere da psicodrammi per distruggere le inibizioni dei partecipanti (in genere vestiti con abiti lunghi e maschera gli uomini, e provocanti le donne): il primo e più famoso è la messa nera (black mass), una parodia della messa cattolica dove si inveisce contro Cristo e si profana l’ostia, posta sul corpo di una donna nuda che funge da altare; nell’air épais (aria pesante) si vendicano idealmente i Templari, calando un uomo vestito da papa in una bara assieme a una giovane donna che lo “converte” ai piaceri della carne, facendogli espiare così la sua colpa; infine, nel das Tierdrama (il dramma degli animali), gli uomini rinunciano alla loro presunta natura spirituale e celebrano la loro identità con gli istinti primordiali, inseguendo un topo a quattro zampe e comportandosi come animali.
Nel 1975 uno dei membri più eminenti della Chiesa di Satana, Michael Aquino (*1946), disse di aver ricevuto una rivelazione da parte del dio egizio Seth, a suo dire demonizzato in epoca antica col nome di Satana; staccatosi dalla corrente razionalista, e ispirandosi alle pratiche della Golden Dawn, del Thelema e dello stesso LaVey, Aquino fondò il Tempio di Set e, con esso, il cosiddetto satanismo occultista, il quale crede all’esistenza del soprannaturale e ha un complesso sistema di magia cerimoniale. Per Aquino esistono due tipi di magia: la “piccola magia nera”, ovvero i trucchi di manipolazione psicologica, e la “grande magia nera”, cioè la realizzazione della Vera Volontà crowleyana con l’aiuto di Set, l’entità che in origine diede l’intelligenza all’uomo, e tramite il proprio “doppio magico” (o ka) che agisce in astrale; Aquino inoltre mantiene una struttura più classica dell’altare (sul quale brucia una fiamma) e della strumentazione rituale, preferendo celebrazioni solitarie o in coppia. Il mago può comunque procedere secondo le proprie preferenze e fantasie: non deve dunque sorprendere se, riprendendo i concetti della chaos magick che vedremo a breve, in alcuni rituali vengono invocati anche i Grandi Antichi dei romanzi di Lovecraft.

LA CHAOS MAGICK

Un rito di chaos magick con alcuni partecipanti in videoconferenza.

La chaos magick (“magia del caos” in inglese) è attualmente la più giovane tra le tradizioni magiche postmoderne, nata con l’intento di formulare una “teoria generale della magia” che potesse riassumere e spiegare tutte le forme di magia precedenti e nello stesso tempo fornire agli aspiranti maghi del XX secolo un mezzo nuovo, sicuro e liberato da inutili complicazioni per accedere al potere magico.
La sua prima formulazione avvenne negli Anni ’70 in Inghilterra, a opera di Peter James Carroll (*1953) e Ray Sherwin (*1952). Nel 1978 Carroll pubblicò il primo testo sull’argomento, intitolato Liber Null, subito dopo aver fondato assieme a Sherwin l’organizzazione esoterica degli Illuminati di Thanateros (I.O.T.), che fu il primo gruppo al mondo a mettere in pratica le teorie dei due, poi ulteriormente sviluppate da Carroll in un secondo libro del 1981, Psychonaut. Il pensiero di Carroll e Sherwin prendeva le mosse principalmente dall’opera di Austin Osman Spare (1886-1956), esoterista, poeta e disegnatore inglese che aveva approfondito e sviluppato una tendenza già presente nell’attività di Crowley: quella di ridurre la magia alle sue “componenti fondamentali”, epurandola da tutti gli orpelli e le pratiche superflue introdotte da millenni di tradizioni diverse. In particolare a Spare si deve la creazione di una pratica magica nuova, quella dei sigilli, che divenne presto una delle caratteristiche più tipiche della chaos magick.
L’idea alla base della chaos magick è che non esistano una magia “vera” e una magia “falsa”, o pratiche magiche che “funzionano meglio” di altre: tutte le forme di magia che l’uomo ha mai immaginato o potrà mai immaginare possono funzionare se chi le mette in atto si trova nell’appropriato stato mentale, che i caoti chiamano “gnosi”. Le tecniche per raggiungere questo stato sono una componente fondamentale della chaos magick e spaziano dalla meditazione all’uso di sostanze stupefacenti, dall’ipnosi alle privazioni sensoriali, dalle pratiche ascetiche all’estasi indotta da sensazioni fisiche o emotive estreme (quali tortura o sesso rituale). Grazie a questa loro adesione “a tutte le forme di realtà e a nessuna” (che loro chiamano “spostamento di paradigma”), i caoti sostengono di poter fare magia con qualunque incantesimo o rituale proveniente da qualunque cultura del passato, e allo stesso modo di poter inventare rituali completamente nuovi e di poter prendere forme di magia dalla letteratura, dal cinema o persino dai videogiochi, e dimostrare che funzionano non meno bene di qualunque magia tradizionale.
Oggi la chaos magick è molto in voga nella cultura esoterica occidentale, soprattutto tra i praticanti più giovani (ma non solo). L’I.O.T. esiste ancora ed è diffuso in molti Paesi, sebbene operi con una certa riservatezza (non si può parlare di vero e proprio segreto, ma senz’altro di volontaria lontananza dallo sguardo pubblico) e né Carroll né Sherwin siano più coinvolti nelle sue attività. Ma sono molti di più gli esoteristi che si dedicano alla chaos magick per proprio conto, senza particolari affiliazioni: tra i più noti vanno senz’altro citati due celebri fumettisti, Grant Morrison (*1960) e Alan Moore (*1953), che non fanno mistero delle loro pratiche, e anzi talvolta organizzano attività magiche pubbliche.